È la settimana del Fico, acronimo di Fabbrica Italiana contadina, che proprio oggi apre le porte a Bologna su una superficie di 100 mila metri quadrati. La settimana scorsa c'è stata una preview per i giornalisti da cui sono scaturiti titoli del genere "La Disneyland del cibo" e altre magnificenze che esaltano "il più grande park del gusto del mondo". Ora, non so se l'idea del Fico è maturata durante l'Expo, dove qualcosa del genere un po' si è visto, ma certamente la rappresentazione del cibo italiano, della sua biodiversità, aveva bisogno di qualcosa di permanente.
Detto questo, per evitare di accodarci fra i giornalisti acritici da una parte o i detrattori a priori di Farinetti dall'altra, preferiamo astenerci dal dare giudizi, se con dopo un periodo di decantazione, con tanto di visita ad hoc. Certo il Fico può essere la rappresentazione di molte cose: anche della bulimia gastronomica. Ma, se funzionerà, ogni pregiudizio andrà rispedito al mittente. Intanto la ristorazione patria, che ogni anno subisce il verdetto di una guida francese (in uscita imminente anch'essa), mostra i suoi lati deboli. E non dice nulla se viene svolta nei megacentri. Anzi, la ristorazione polverizzata assume talvolta iniziative curiose.
Come quella di un ristorante di Como che applica una tassa del 20% se una coppia sceglie di dividere il piatto in due: il patron del locale sostiene che dividere la porzione ha un costo (quanto guadagnerà lì il lavapiatti?). Non farà molta strada; non solo l'iniziativa, ma lo stesso locale che ha scelto una soluzione antipatica: quella di mettere paletti ai clienti, che invece vanno assecondati.
In un altro locale in centro a Milano ho scoperto che il vino proposto a bicchiere costa di più della bottiglia intera in enoteca. E a parte il rifiuto personale di ordinare uno spreco economico, ho chiesto anche spiegazioni. La risposta non fa una grinza: «Abbiamo molte spese di personale, servizio, mantenimento». Già, e le deve pagare il malcapitato attraverso un prezzo ingiustificato di un bicchiere di vino? Nei ristoranti non si ordina più il menu intero, al massimo due piatti, e gli introiti non sono più quelli di un tempo. Se poi ti apre un Eataly in città o un Fico a Bologna, la gente va lì, dove c'è anche il cuoco stellato (poteva mancare?).
E se non tornano più i conti nei ristoranti classici i casi sono due: o si chiude, o si trova una nuova strada, magari studiando le tendenze dei consumatori (cosa che i grandi gruppi fanno scientificamente), sapendo che l'amministratore pubblico porterà sempre acqua al mulino dell'impresa più grande, mentre il singolo ristorante non è neppure politicamente corretto. Così è la vita: piove sul bagnato, ma se si rimane fermi e rigidi, non si esce dal limbo e non ci si asciuga.
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