«E con un fascio di giornali in mano pensavo, si può anche morire di dolore...», canta Francesco De Gregori ne La campana. E un leggero dolore mi ha lasciato, anche una frase dello stimabile Carlos Passerini, pubblicata lunedì scorso sulle pagine sportive del “Corriere della Sera”: «Un buon arbitro non è per forza di cose un buon varista. E lo stesso vale per il contrario». Sconfortati da questa nuova teoretica, incassiamo e ne prendiamo atto. Non ce ne voglia la buon anima di Aldo Biscardi, ma la sua amata e futuristica trovata della «Moviola in campo» - la promuoveva nella notte dei tempi al Processo del lunedì – , a noi cuori impavidi del calcio di poesia ci appare
fantozzianamente come una “cagata pazzesca”. Non ci interessa il dato statistico, se è stata più utile o meno dalla sua introduzione (stagione 2017-2018) nello smascherare i gol-non gol, rigore-non rigore, espulsione o non espulsione, l’unico dato certo è che ha svilito quel poco di poesia e di umanità ancora rintracciabile nel gioco del calcio e nei suoi protagonisti. A cominciare ovviamente dal Malaussène con il fischietto, il capro espiatorio: l’arbitro. L’uomo non più nero ma variopinto, che deve prendere la decisione, immediata, supportato da questa professionalità chiamata il “varista”. Il quale, secondo la vulgata pallonara, dovrebbe essere infallibile, in quanto si avvale della più affinata tecnologia messa in campo. Ma così non è, e non può essere, perché grazie al cielo c’è sempre il fattore umano che determina gli eventi, e l’uomo che interpreta, cade inevitabilmente, vittima dei suoi limiti, e quindi in errore. Nella Repubblica del sospetto, l’errore viene tradotto, quasi sempre, in malafede. Ma allora a cosa serve tutta questa tecnologia se poi siamo tornati al cupo sospetto primordiale? Di contro, abbiamo arbitri preparati tecnologicamente nel laboratorio di Sportilia, e atleticamente alla stregua dei campioni. Arbitri fuoriclasse (dicono), ai quali viene chiesto di essere dei Robocop con il fischietto. Vietato sbagliare, altrimenti, Aia! si viene sezionati e sospesi dall’incarico. Siamo appena alla terza giornata e già si segnalano malori e livori di presidenti e allenatori “traditi” dalla decisione del signor Di Bello (Juventus-Bologna) o del signor Mariani (Torino-Milan). E tutti a prendersela con il varista, il signor Forneau, che già dal nome sembra uscito da un romanzo di Balzac, protagonista di «una seconda giornata da horror». Ma l’orrore vero è aver introdotto questi macchinari che non salvano vite come fa invece una risonanza magnetica, ma anzi contribuiscono a rovinarle. Dopo averci propinato il calcio spezzatino e le dirette direttamente dagli spogliatoi, mentre i mutandieri della domenica girano ignudi ora dovremmo sorbirci anche il nuovo format che stanno approntando: gli audio dei dialoghi arbitro-Var. E noi magari lì, ad ascoltare, con le patatine e uno spritz in mano, cantando la cover di Gino Paoli, Eravamo quattro amici al Var. No, meglio La Campana di De Gregori: «E io incollato sulla strada pensavo, ma tutto questo deve pure finire».
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