Ho ricordato anch'io - appena avuta la notizia della sua morte - la saggezza di Vujadin Boskov, il tecnico serbo scomparso l'altro ieri all'età di 82 anni. Preoccupandomi subito, però, come voglio fare adesso, di non ricordarlo come un serioso “guru”, un saggio burbanzoso e noioso; ma neanche come un battutista da bar sport, dettaglio rivelato da inesauribili elenchi di facezie, di pillole agrodolci e aforismi corrispondenti solo in parte alla sua personalità - più complessa - di maestro di un calcio che, come amava precisare, è anche e soprattutto la sfida fra undici uomini contro undici uomini. Questi erano i suoi “ragazzi” dei quali conosceva vizi e virtù e temperamento e caratteristiche tecniche talvolta da definire, spesso da adattare alle sue sempre originali scelte tattiche. I suoi successi - in Spagna come in Italia, al Real Madrid (1980) come alla Sampdoria (1991) - sono ricordati da giocatori diventati in gran parte ottimi allenatori (Mancini su tutti) che lo ebbero Padre, Fratello, Maestro. Il Maestro della Leggerezza, ho detto più volte, che rappresentava la sua intelligenza nel vivere e trasmettere un'idea di calcio non banale, non ultratifoso, non violento, non commerciale. Quasi uno sport, anche se non si sarebbe mai impancato a giudice di costumi tuttavia degenerati in quasi settant'anni di carriera da bravo pedatore e ottimo allenatore. Anche la sua battuta più famosa, «rigore è quando arbitro fischia», resta l'onesta bandiera di un tecnico rispettoso delle regole anche se ogni sua espressione era accompagnata da ironia, arte colta di esprimersi assolutamente ignota alla gran parte degli addetti ai lavori. Con un tocco di leggerezza e di classe in più sarebbe stato un disincantato Liedholm al quale l'accomunava anche un'idea “europea” di gioco, vale a dire un felice mix di elegante offensivismo e organizzato difensivismo, supportati da un centrocampo intelligente: come dire Vialli all'attacco, Tonino Cerezo a centrocampo e Vierchowod in difesa. A Roma, per capire, fece esordire un giovanissimo Francesco Totti. Ho conosciuto un Vujadin incantato e incantatore, quindi capace di sdrammatizzare non solo il gioco ma di eleggere la Pace a massima virtù civile. Nel '99, mentre lui allenava il Perugia e io avevo lasciato i giornali sportivi per dirigere un quotidiano d'informazione, lo sentii parlare della guerra che sconvolgeva il suo Paese e, mentre i pedatori ormai ex jugoslavi più famosi - Savicevic, Stoikovic, Mijatovic, Mihailovic, Jugovic, Stankovic - invocavano gesti clamorosi contro l'organizzazione calcistica europea, Vujadin, che aveva una sorella a Novi Sad e un fratello a Belgrado esposti ai bombardamenti della Nato, invocava prima del disastro totale una trattativa pacifica contro le bombe: «Usate il cervello – pregava – usate il cervello...». Alla fine del massacro si prestò a un tentativo di ricostruzione anche sportiva del suo Paese accettando di guidare la Nazionale di Serbia e Montenegro. Così chiuse la sua carriera zingaresca che l'aveva portato alla guida di sedici club in Svizzera, Spagna, Olanda, Jugoslavia e Italia. E in Serbia - dove si era ritirato sofferente - è morto lasciando rimpianti e sorrisi.
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