La Coppa dei Campioni era dalle origini una privativa del Real Madrid di Alfredo Di Stefano. Ne aveva vinte cinque consecutive prima che entrasse in scena il Benfica di Coluna nel '61 e di Eusebio nel '62. Per noi italiani niente. Poi arrivò il Milan che il 22 maggio del 1963, nell'aristocratica arena di Wembley, batté finalmente i portoghesi portando in Italia la prima Coppa dalle Grandi Orecchie. La sollevò al cielo Cesare Maldini, capitano rossonero, circondato da Ghezzi, David, Trebbi, Benitez, Trapattoni, Dino Sani, Rivera, Pivatelli, Altafini e Mora, fior di campioni agli ordini di Nereo Rocco, il Paròn. Lo sconfitto d'allora, Eusebio la “Pantera nera”, un campionissimo, ci ha lasciato due anni fa. Cesare Maldini l'altra sera, con discrezione, come in tutta la sua vita, nonostante quell'immagine di Wembley che l'aveva proiettato nella storia e nei cuori degli appassionati che oggi accompagnano la sua uscita di scena con umanissima e sincera partecipazione, come merita una persona perbene, un maestro, uno sportivo autentico. Cesare l'antiretorico che ebbe popolarità secondo i canoni televisivi solo quando lo imitò – con amicizia – Teo Teocoli, legandolo alla sua creatura più cara, «Paolino». Uomo e calciatore elegante, mi fu segnalato da Paolo Mazza, l'antico patron della Spal, che l'aveva portato in Cile nel 1962, già trentenne, al suo primo e unico Mondiale da calciatore, con mezzo Milan, Sivori e Bulgarelli. Cesare era il difensore perfetto, forte e corretto, l'ideale esemplare di un calcio «all'italiana» che cercava di superare le rudezze della Scuola Rocco. Il Paròn lo ammirava e rispettava. Li conobbi insieme e imparai quel tanto di triestino senza accenti che Nereo esibiva con qualche concessione allo sberleffo (tutti «mona» eravamo), Cesare limitandosi all'accento, anche perché zarfujava, balbettava. Diventammo amici nella felice stagione di Bearzot, soprattutto perché il Vecio di amici ne aveva pochi e aveva trovato in Cesare il collaboratore fedele, mentre il resto della Figc non vedeva l'ora di silurarlo. Condividevano una onestà esemplare, non da santi ma da uomini corretti anche nelle scelte sportive. Quando gli azzurri campioni del mondo sollevarono e fecero volare Bearzot sul terreno del Bernabeu Cesare era nel gruppo, felice e sorridente come un ragazzo. Così, leggero, mai sentenzioso, fu ct della Nazionale – dopo tre Europei vinti con l'Under 21 – al Mondiale di Francia, nel '98, dove la squadra di Paolino, Baggio e Bobo Vieri fallì il titolo d'un soffio, per un rigore sbagliato nei quarti di finale, quasi come nel '94 a Pasadena era toccato a Sacchi, che non criticò mai – anzi ne fu amico e collaboratore – perché questo era il suo stile che lo impose all'attenzione del mondo, prima come ct del Paraguay che portò al Mondiale del 2002 poi come opinionista di al-Jazeera, stimatissimo in un mondo così lontano dalla sua cultura. Mi piacerebbe raccontare le lunghe discussioni tattiche che avemmo: lo provocavo ad arte per incassare le sue istruzioni; vinsi una sola battaglia dialettica a Città del Messico, alla vigilia di Italia-Francia, nell'86, quando Cesare suggerì a Bearzot di far marcare Platini da Beppe Baresi e io lo contestavo. A distanza di anni, quando passando da Milano lo incontrai all'Assassino, sede enogastronomica dei milanisti, ne ridemmo come di altri piccoli intrighi dell'82. Tornai una volta, da quelle parti, ma non trovai Cesare perché non c'era più nemmeno l'Assassino, acquistato e trasformato – mi dissero – da un famoso interista. Ne avremmo riso. In compenso, nel giorno in cui il Milan non ha avuto cuore di onorarne il ricordo con una vittoria, ci ha pensato la folla interista di San Siro ad applaudirlo. Va bene così. Ciao Cesare.
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