martedì 12 luglio 2022
Se una larga maggioranza dei parlamentari europei insiste per ben quattro volte, nell'arco di appena un anno, a chiedere che l'aborto abbia al più presto la dignità di diritto costituzionale dell'Unione, al di sopra cioè di qualunque legge ordinaria nazionale, occorre porsi qualche domanda davvero "di fondo". Oltre a quelle già indicate su queste colonne nell'editoriale di venerdì scorso da Francesco Ognibene (riguardo al concetto stesso di "diritto" e all'impossibilità, in qualche modo "ontologica", di negare al diritto alla vita la primazia su tutti gli altri), è giusto interrogarsi ancora su che cosa ha suscitato il gesto dei 324 eurodeputati (su 517 presenti: il 63 per cento). E anche chiedersi fino a che punto essi hanno coscienza delle implicazioni culturali, e quindi anche storiche, del loro gesto.
Ricapitoliamo. Il 24 giugno 2021 l'Eurocamera vota il "Rapporto Matic", dove si parla per la prima volta di "diritto umano fondamentale". A metà gennaio di quest'anno, quando il presidente francese Macron propone di inserire l'aborto nella carta dei diritti basici della Ue, parte un lungo applauso corale di approvazione. Il 9 giugno scorso, è stata approvata a tamburo battente la risoluzione di critica alla Corte suprema americana, colpevole di prepararsi a togliere la garanzia federale alla totale libertà di scelta della donna. Infine, giovedì 7 luglio, l'ultima intimazione all'Unione, perché riveda la sua costituzione in chiave abortista.
Che cosa c'è dietro la fulminea reattività con cui l'assemblea di Strasburgo insorge, ogni qual volta si affaccia l'ipotesi che l'interruzione di gravidanza venga, non negata, ma anche solo parzialmente condizionata? O, come nel caso della sentenza dei giudici di Washington, rimessa alla scelta dei legislatori locali, eletti pur sempre su base democratica? A costo di sfidare la facile accusa di complottismo, si può solo supporre la presenza dietro le quinte di un'orchestrazione, di una rete organizzata di "allerta", di un sistema ben oliato capace di mobilitare rapidamente mass media, influencer e legislatori perché vadano all'attacco. Del resto, è nota la mole di risorse finanziarie pubbliche e private, e quindi di interessi, che ruota attorno alla pratica dell'Ivg. Perché stupirsi di tanto zelo anti-vita?
Da quasi cinque mesi in Europa è in corso una guerra, che chissà per quanto tempo ancora andrà avanti. A scatenarla è stata la Russia, primo Paese al mondo a legalizzare l'aborto al tempo dell'Urss (1920), dove secondo gli ultimi dati disponibili le gravidanze interrotte superano ancora il mezzo milione l'anno. A sostenere con le armi l'Ucraina aggredita sono soprattutto gli Stati Uniti, dove quest'anno gli aborti, nonostante la Corte suprema, sfioreranno il milione. (Sia chiaro: la difesa del più debole ingiustamente attaccato è un giusto principio, ma si può ragionare sul modo di farlo).
Ed ecco il secondo interrogativo, "scandaloso": per gli eurodeputati esiste un nesso tra la frequenza degli aborti e il tasso di aggressività di un popolo? Secondo loro, dovendo decidere se e come combattere, è davvero ininfluente l'abitudine sociale a "ingaggiare un killer" (Papa Francesco) per eliminare una gravidanza indesiderata? In fondo è la domanda che Madre Teresa di Calcutta poneva al mondo l'11 dicembre 1979, ricevendo il Nobel per la pace: "Se una madre può uccidere il suo bambino, cosa impedisce a voi e a me di ucciderci l'un l'altro?". Chi a cuor leggero preme i pulsanti del voto a Strasburgo si guardi attorno e provi a rispondere.
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