«È stato com-messo un errore, non si pratica un'interru-
zione di gravidanza alla ventiduesima settimana. Esiste il rischio che il feto sopravviva». Questo ha detto a Il Fatto Quotidiano (il quotidiano di Travaglio e Padellaro - 29 aprile) il prof. Carlo Flamigni, «ginecologo, membro del Comitato nazionale per la bioetica, autore di libri di divulgazione sulla RU 486 e sulla pillola del giorno dopo» e sostenitore dell'aborto di Stato. Il Professore commentava la morte di quel bambino fatto abortire a Rossano Calabro per una malformazione (non pare che fosse tanto grave da meritare la pena capitale) e abbandonato vivo per un giorno intero su un tavolo quando la stessa legge 194 prescrive di fare il possibile per salvare i feti vitali. Sembra incredibile: nell'aborto, almeno in quello legale (e questo, per di più, era «terapeutico»), il «rischio» maggiore che corre la creatura portata a forza alla luce è di vivere. Lo spiega anche Flamigni: «Per questo alla 22ª settimana non si dovrebbe interrompere la gravidanza per un principio di precauzione...». «Rischio di sopravvivere..., precauzione...» e, infine, è anche colpa dei «medici obiettori», che rendono «sempre più difficile interrompere una gravidanza» e che «devono sentirsi responsabili». Orribili e incredibili quell'aborto, il commento e lo scaricabarile sui medici che rispettano la vita e il giuramento di Ippocrate. È questa la "cultura della morte".
IL DIAVOLO E I COPERCHI
Nei giornali, normalmente, il titolo non è opera dell'autore dell'articolo, ma di un altro redattore, perché dall'"esterno" si coglie meglio l'effetto che avrà sui lettori. Il titolo, insomma, esprime quello che il giornale vuole dire pubblicando l'articolo: rivela l'"intenzione" del giornale. Su La Stampa, il 15 aprile era comparso un articolo che raccontava di una donna rumena, Alina, che, con una regolare ricetta medica (dove non si dice lo scopo, ma si indica solo il farmaco) era andata nella farmacia vaticana (dove non c'è l'Iva) per comprare una confezione di una pillola anti-ulcera gastrica, capace anche, però, di indurre l'aborto. Questo era ciò che Alina voleva e ha ottenuto. Da qui il titolo scandalistico: «"Aborto express" nella farmacia del Vaticano. File di immigrate per acquistare un farmaco nato come anti-ulcera. Nella Santa Sede è venduto a basso prezzo e con scarsi controlli sulle ricette». Ovviamente indignato, il Direttore della farmacia ha scritto a La Stampa precisando (27 aprile) che «non possiamo indagare sull'uso del medicinale prescritto», che «non si fanno sconti», ma «non si paga l'Iva», che è una tassa italiana, e soprattutto che non ci sono «file di immigrate», perché dal 24 aprile del 2009 al 24 aprile del 2010 di quel medicinale «sono state vendute 17 confezioni, due delle quali su ricette interne», cioè di medici del Vaticano: in un anno 15 persone non sono «file di immigrate». L'autrice dell'articolo ha replicato sostenendo che non aveva parlato lei di «file di immigrate», che lei si era limitata ad affermare che «la donna è entrata nella farmacia vaticana e ne è uscita con un farmaco che è il più usato nell'aborto clandestino e che provoca ogni anno la morte di centinaia di donne in tutto il mondo». Insomma, che il titolo non era suo, ma della redazione. Era sua, però, la conclusione da cui era stato ricavato: «In Vaticano l'"aborto-express" non solo è libero, ma costa un euro e settanta centesimi di meno»). Meglio per La Stampa se avesse taciuto: non avrebbe scoperto gli altarini, cioè le "intenzioni" del suo giornale di costruire deliberatamente su niente uno scandalo inesistente. Il diavolo, però, fa le pentole, ma non i coperchi. Alla giornalista addebiteremo, però, un aborto giornalistico.
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