Non sono né voglio essere un difensore del '68, non mi sono né divertito né sentito moralmente migliore in quell'anno e nel decennio successivo, fino all'assassinio di Aldo Moro a opera delle Brigate Rosse (assassinio che con il '68 ha poco a che fare). Non ho vissuto quel periodo come una «liberazione», ma come un impegno politico che sentivo doveroso e che mi pesava, imponendomi una rinuncia alle cose che mi interessavano di più, scrivere e studiare. Insegnavo letteratura, filosofia e storia nelle scuole medie superiori, insegnare mi piaceva, volevo rinnovare il modo di farlo, cercavo di coinvolgere direttamente gli studenti, con i quali discutevo di tutto. Giudicavo i «partitini» rivoluzionari e i loro leader un fenomeno degenerativo, lontano dal vero spirito del movimento, che non voleva soltanto, come molti credevano, assemblee, manifestazioni fluviali e scontri con la polizia. Lo scopo, secondo me, non era trasformare in militanti politici un' intera generazione di giovani, ma di far capire che la politica andava ridefinita e criticata e che la prima cosa era sapere come funziona una società dominata dall'economia capitalistica e dalla burocrazia statale, in cui il rapporto con gli altri e con noi stessi viene controllato, manipolato e distorto"
Ma il '68 non è un argomento che mi appassiona. Volevo parlare degli attuali problemi della scuola, di come e che cosa si impara e si insegna. In un articolo sul magazine del «Corriere della sera» Angelo Panebianco si preoccupa giustamente che la maggioranza degli italiani e dei politici in campagna elettorale non si interessano al sistema educativo. Poi dice, come fosse la cosa più ovvia del mondo, che si tratta di «abolire il '68». Siamo ancora a questo punto? Il '68 è stato abolito da più di trent'anni. Se si vuole capire perché la scuola non va, bisogna considerare il modo in cui viviamo e pensiamo oggi, un modo che non ha niente a che fare con utopie anticapitaliste, ma con il trionfo del capitalismo in tutto il mondo.
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