La notte tra il 30 aprile e il primo maggio, era d'uso, almeno nell'Italia centrale e certamente nel paese umbro dove sono nato e cresciuto,
che i giovani maschi adolescenti si organizzassero in piccoli gruppi con qualche strumento e girassero le campagne cantando stornelli sotto le finestre delle case coloniche, corteggiando le ragazze di casa, che rispondevano a tono sotto l'attento sguardo dei genitori. Un rito di passaggio, una celebrazione per l'apertura della stagione più intensa dell'anno, per i lavori e per gli amori. L'ultimo stornello diceva «suvvia biondina metti lo zinale / e vien giù la cantina col boccale» (lo zinale, voce dialettale per il grembiule). Le ragazze scendevano nell'aia offrendo a ciascun giovane un bicchiere di vino e due uova fresche, una delle quali era d'obbligo bere sotto i loro occhi mentre le altre finivano in un cestino e venivano divise prima di tornare, all'alba, alle proprie case. Aver visitato molte case nel corso di una notte voleva dire aver bevuto molti bicchieri di vino e molte uova, ma tornare a casa ubriachi e spesso vomitanti faceva parte del rito, e quando successe anche a me i miei genitori mi assistettero con affettuoso compiacimento: voleva dire che stavo diventando adulto. Queste tradizioni durano ancora, e sono antichissime. Ai tempi del Rinascimento si chiamavano Cantalmaggio, e il Poliziano vi ha scritto sopra una poesia famosa: «Ben venga ‘l maggio /e il gonfalon selvaggio» (e il gonfalone era un ramo di glicine o di acacia, festosi fiori primaverili da appendere alle porte delle fanciulle). Non so se questo rito, ancora vivo nella mia Gubbio pur se appena un poco inquinato dalle Pro Loco, si ripeterà anche quest'anno, ma in questo caso avrebbe un significato ben più vasto, quello dell'uscita, si dice, ameno in Italia, dal periodo più brutto di una brutale epidemia. Aspettiamo tutti il Maggio, in questi giorni senza festa, come il mese della liberazione dalle forzate clausure, dalle paure, dalla morte di tanti. Non una festa, e se un passaggio, non certo verso un domani senza paure, pieno anzi di nuove preoccupazioni su quel che potrà fare una classe dirigente malata quanto il paese, quanto il pianeta. Una svolta che non possiamo neanche chiamare epocale, perché temiamo perfino che possano non esserci altre epoche dopo questa, e che, se ci fossero, possano essere tremende e forse, ci dice l'inconscio, definitive. Ma è importante in ogni caso, e fino all'ultimo se necessario, non arrendersi. Insieme agli altri. E dunque: «en venga maggio»!
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