Vengono dalla direzione del Buzzi, l'ospedale dei bambini. Una giovane coppia, lei sembra incinta, la pancia si comincia appena a notare. Camminano parlando fitto, le mascherine sul volto ma l'aria felice. Lui tiene in mano un tablet e insieme guardano lo schermo avvicinando i volti, indicandosi reciprocamente qualcosa con l'indice. A un semaforo si fermano, il ragazzo ne approfitta per ingrandire sullo schermo un'immagine azzurrina sul fondo nero. Io che arrivo alle loro spalle per un istante intravvedo qualcosa che palpita, e piccole cifre bianche su un lato. Riconosco quel buio e quella luce diafana: è l'ecografia di un nascituro. Ancora piccolo, pochi centimetri, rannicchiato in posizione fetale. (Ricordo come, quando incinta ero io, mi sbalordiva sentire il regolare, tenace battito del cuore. Preciso, tranquillo: programmato per battere per l'intera vita di un uomo).
Ma i due ragazzi al semaforo, da cui per discrezione ora ho distolto gli occhi, parlano a voce alta. «Ma che cosa fa ora?» chiede lei meravigliata. E lui, dopo un attimo di stupore: «Si dondola. Sì, si direbbe che salta». La coppia si allontana a braccetto, ridendo, li sento che scherzano fra loro. «Avrà preso da te ..», fa la ragazza.
Attorno, in una triste Milano, le saracinesche abbassate, i tavolini dei bar impilati, i tram che passano veloci e vuoti. Ma, mi dico come contagiata dalla felicità di due sconosciuti, in quell'ecografia un bambino che verrà al mondo in autunno, beato come in paradiso, salta. Nuota nel tepore dolce del suo mare. Fra poco forse comincerà a succhiarsi il pollice, atto in cui spesso l'obiettivo dell'ecografo coglie i nascituri (il pollice, quasi sognando già il seno cui si attaccheranno).
Concepito forse da cinque mesi, nel buio materno un bambino dell'anno 2020 salta. E ora sorrido anch'io, sotto al cielo grigio di questa Milano apparentemente immobile.
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