Con un post uscito sull'edizione italiana di "Aleteia" mercoledì 25 luglio ( tinyurl.com/y7dpxvgn ) e su quella anglofona il sabato precedente ( tinyurl.com/y9d9a5ra ) Anna O'Neil, giovane mamma che vive nel Rhode Island, racconta con il cuore in mano la gioia e la fatica dell'andare a Messa con bambini piccoli e vivaci, sfidando i moniti di gran parte degli altri fedeli presenti alla liturgia e insieme compromettendo la qualità della propria «actuosa participatio», come la chiamano il magistero e la teologia. Nell'edizione originale il post ha fatto, nel suo piccolo, sfracelli (il sito dichiara 88mila condivisioni). Tra i lettori italiani, che pure l'hanno apprezzato, me lo segnala, anch'essa con il cuore in mano, un'altra giovane coppia di genitori che vive in Emilia, e subito mi rivedo, giovane padre, inseguire in tutti gli altari laterali della chiesa il figlio appassionato di manipolazione della cera, o disegnare all'altro figlio lunghissimi treni mentre dalla porta socchiusa della sacrestia mi giunge l'eco lontana della Messa alla quale, come posso, sto anch'io prendendo parte. Continuo dunque a pensare e a scrivere che se la parrocchia è famiglia di famiglie dovrà condividere con genitori e nonni anche la vivacità dei loro piccoli, senza pretendere che "stiano buoni", né che i loro cari vadano a messa a turno o si lascino relegare in appositi ambienti isolati dal resto dell'aula liturgica. Ma c'è di più. «Il nostro contributo sembra così esiguo che qualcuno potrebbe chiedersi perché ci scomodiamo a offrirlo», scrive Anna O'Neil (anche se la sua "lingua" americana rischia di non arrivare bene agli orecchi del lettore italiano). Ma pensando all'obolo della vedova ritratta nel Vangelo di Luca, si dice convinta del valore che una partecipazione liturgica così generosamente impoverita deve avere agli occhi di Dio, e dovrebbe avere agli occhi della parrocchia. L'ho creduto e lo credo anch'io.
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