Auna liceale che mi chiedeva che cosa sia la felicità, credevo di avere buon gioco nel risponderle che è ben difficile identificarla e addivenire a una definizione condivisa, dal momento che Agostino ci riferisce che ben 288 dottrine si sono cimentate sul problema. Aggiungevo che non meno smarriti e delusi rimaniamo se ci affidiamo a Nietzsche, il quale sentenziava: «La felicità non ha volto, ma spalle: per questo noi la vediamo quando se n'è andata». Ma quella ragazza voleva sapere che cosa io intendessi per felicità e quale strada indicassi a lei; mi incalzava con una richiesta non culturale e filosofica, ma personale ed esistenziale. Aveva ragione. Sì, perché la felicità non è un bene dottrinale e astratto, né privato e individuale, ma concreto e vissuto, comune e condiviso: appartiene a tutti o a nessuno. Come puoi essere felice se non lo è chi vive nella porta accanto, chi ti siede a fianco, chi hai appena incontrato, chi vedrai nei giorni a venire? La felicità, la possiamo incontrare solo se decliniamo il "noi", il pronome del terzo millennio, come insegna il poeta Paul Eluard: «Non verremo alla meta ad uno ad uno / ma a due a due. Se ci conosceremo / a due a due, noi ci conosceremo / tutti, noi ci ameremo tutti e i figli / un giorno rideranno della leggenda nera dove un uomo / lacrima in solitudine».
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