Torno a Città del Messico dopo undici anni. Mi sembra tutto cambiato e tutto uguale. Naturalmente i murales di Diego Rivera, Orozco e Siqueiros sono sempre lì. La casa di Frida Kahlo è sempre molto visitata. In quella che fu l'abitazione di Trockij c'è sempre un trockista inglese o californiano che fotografa la scrivania o la cucina. Ma nella vallata di Anahuac in cui si stende questa città di 25 milioni di abitanti, l'inquinamento atmosferico, che era soffocante, è diminuito. Una volta anche in centro mendicavano gli indios. Il Messico sembrava l'India dell'Occidente: miserie e dolore a cielo aperto. Ora banche dappertutto. E poi ristoranti, caffè, alberghi, supermercati e ipermercati. L'odore forte delle tortillas cotte e vendute per strada non è più onnipresente. Meno folla, meno colori, meno odori, meno indios, meno povertà. La più alta percentuale di classe media deve essersi insediata nel centro della capitale. Forse l'economia non va così male. Gli Stati Uniti hanno bisogno del petrolio messicano, oltre che di quello di Hugo Chavez. Qui però nessuno è ottimista. Anche dopo la sconfitta nel 2000 del Partito Rivoluzionario Istituzionale, che era al governo da 70 anni, difficile trovare chi creda nella politica. Meglio la Vergine di Guadalupe, meglio Emiliano Zapata o il sogno di una fuga oltre il confine nord. I messicani con cui parlo dicono che sono solo aumentati i ricchi e sono più ricchi di prima.
Nel mio albergo la vasta sala da pranzo è affollata di uomini d'affari la cui vicinanza sopporto male. Alla reception il personale è guardingo. Io per loro sono un problema e un mistero, dato che non dispongo di una carta di credito. Non mi resta che fraternizzare con i due addetti alla pulizia delle stanze. Lavorano lentamente, ma con uno scrupolo mai visto. Il giovanotto è bello e timido. La signora ha lo sguardo intelligente di una donna delusa e si muove come se ballasse. Con loro sono a mio agio. Posso dare mance eccessive, un euro vale più di 15 pesos.
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