Sta finendo l’anno anniversario dell’opera poetica più famosa, influente e studiata del Novecento: La terra desolata di Thomas S. Eliot, pubblicata nell’ottobre del 1922. Se ne è molto parlato. Ma io, che la lessi la prima volta da liceale, a diciassette anni, sento il bisogno di dire ancora qualcosa, oggi che la terra è sempre più desolata e devastata dalla nostra confusione mentale, dalle nostre cecità. Quando lessi quella sorprendente opera poetica, non ero mai stato attirato dalla poesia, che anzi mi respingeva per le sue convenzionalità formali: versi regolari, rime obbligate, strofe costruite secondo schemi fissi. Un adolescente è difficile che ami le regole e ne veda l’utilità. Sente piuttosto bisogno di libertà. E così anche io, che già avevo in mente di scrivere, avevo scelto piuttosto la libertà del romanzo e del racconto. Ma quando lessi La terra desolata scoprii le capacità sintetiche della poesia, che permettevano di ignorare le regole o di inventarne di nuove, per affrontare e registrare quel caos che è la vita reale e la propria vita mentale. Il modo di comporre di Eliot, prima che mettere un certo ordine nelle sensazioni e nei pensieri, li accettava come erano, al di qua di ogni significato stabilito. La scoperta per me fu che la poesia moderna aveva ancora meno regole della prosa narrativa, poteva saltare le connessioni e le sequenze temporali, mescolare versi e prosa, citazioni da autori classici e stralci narrativi o descrittivi, proposti come esemplari, anche se esemplari non si sa di che cosa. L’adolescente cerca un senso, ma vuole cercarlo nell’insensato, in percezioni intense e immediate, o in magnetici enigmi. Scoprivo che la poesia moderna era capace di esprimere un più radicale realismo. Tono ironico o drammatico, solennità religiose, banale chiacchiericcio da pub, citazioni colte: un intarsio in apparenza casuale, al di là del quale si può spalancare il vuoto, apparire lo sgomento o una improvvisa rivelazione di verità. Ho appena ricevuto una nuova traduzione del poemetto, a cura di Sara Ventroni (Ponte alle Grazie, euro 10), con una ventina di pagine di commento. Rileggo per l’ennesima volta quello che scrisse Eliot a poco più di trent’anni e mi sembra di averne ancora diciassette. Forse Eliot non è il maggiore poeta del Novecento. Ma in poesia non ho trovato niente di più rappresentativo e profetico di quel suo reportage sulla crisi della civiltà occidentale.
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