Quella di Nicola non è una famiglia felice, nonostante questo sia lo slogan più ricorrente in casa. Papà è un uomo dal carattere deciso, forte e dispotico, rozzo e aggressivo, di quelli che non ammettono altre decisioni se non le proprie. Nessuno può contraddirlo, mai. Tanto meno sua moglie e sua figlia Mara, una ragazzina che con i suoi quattordici anni
inizia a sentirsi grande. Donne, ripete spesso, deboli e fragili, da proteggere e tenere a freno. Con Nicola invece, il piccolo di famiglia, è tutta un’altra cosa, perché è un maschio e tra uomini, ovvio, ci si intende. Del resto il bambino stravede, ricambiato, per suo padre, invincibile ai suoi occhi quanto un super eroe di quei fumetti di cui è tanto appassionato. Tutto l’opposto di mamma, una donna bella ma fragile, silenziosa e delicata, dalla pelle sottile. Distratta, cui capita spesso di cadere, di urtare gli spigoli dei cassetti o le ante degli armadi, inconvenienti che le lasciano brutti lividi e ferite sulla fronte, sul collo e sulle braccia. Quando un giorno gelido d’inverno la loro vita di famiglia felice per finta incrocia quella di Sarolta - una senzatetto bisognosa d’aiuto che la mamma decide di soccorrere malgrado le regole imposte dal marito -
la realtà di segreti e menzogne viene allo scoperto. Nonostante la durezza del tema, Nemmeno con un fiore (Giunti; 8,90 euro) è un racconto lieve e coinvolgente, che entra con delicatezza e attenzione dentro il patologico equilibrio della famiglia violenta dove la rabbia incontrollata del carnefice incontra la paura e i silenzi delle vittime, l’incredulità, l’impotenza o la complicità di altri attori. Fabrizio Silei – premio Andersen 2014 come miglior scrittore -
con la sua grande sensibilità e la sua penna felice riesce a raccontare con gli occhi di un bambino l’amore molesto e malato di un padre padrone, di cui l’amore sconfinato di un figlio non riesce a darsi ragione. Dai 12 anni.
Le grotte ai margini di Cagliari per molto tempo dopo l’ultimo guerra furono abitate da qualche disperato che sotto le bombe aveva perso tutto Nell’inverno del 1943 la città fu bombardata massicciamente e semidistrutta dalle truppe angloamericane in un'operazione che provocò centinaia di morti tra la popolazione. Più tardi, è storia, si sarebbe scoperto che quei bombardamenti a tappeto rientravano in un’azione diversiva per ingannare i tedeschi sul luogo dello sbarco. Convinto che il fronte caldo sarebbe stato la Sardegna, Hitler lo rafforzó lasciando sguarnita la Sicilia dove invece gli Alleati sbarcarono in quell’estate, trovando una blanda resistenza. Cagliari comunque fu quasi rasa al suolo e contò morti a centinaia. E’ una pagina di storia rimasta in ombra quella portata allo scoperto da La guerra di Toni, ultimo romanzo di Fabrizio Lo Bianco (Rizzoli; 15 euro), terribile e commovente. Siamo alla fine degli anni Cinquanta: quando gli parlano di un certo Toni, il ragazzo delle caverne, Rolando Piras, giornalista cagliaritano in cerca di successo, pensa di avere tra le mani una notizia bomba, lo scoop capace di dare una svolta alla sua mediocre carriera. In realtà la storia si smonta presto: da tempo si sa che nonostante la guerra sia finita da un pezzo le grotte della città sono ancora un rifugio di qualcuno che sotto i bombardamenti del febbraio 1943 aveva perso casa e famiglia. Fallita la possibilità di raccontare la vicenda patetica del ragazzo mezzo muto e mezzo scemo che vive solitario sotto terra, come l’aveva immaginata Piras, il caso sembra chiuso. Non è così perché Toni, ragazzo ferito e disturbato dal suo passato, sparisce nel nulla e tocca al giornalista mettersi sulle sue tracce. Il romanzo si dipana raccontando in parallelo e intrecciando la storia di oggi a quella di ieri: la spasmodica indagine di Piras, uomo senza qualità, borioso e inetto, e la penosa esperienza di Toni, partito dal paese in treno, di nascosto dai genitori – quel maledetto 17 febbraio- per andare al cinema e rimasto intrappolato per sempre e dolorosamente dalla guerra. Dai 13 anni.
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