La disfatta di Monza della Juventus (storico 1-0 dei brianzoli) non ci ha impressionati quanto il punto di non ritorno di sette giorni prima: Juventus-Salernitana. A prescindere da quale fede e quale parrocchia calcistica si appartenga, credo che si possa dire che la tecnologia ha perso ancora una volta. Inutile sezionare le immagini e studiarle come fa un radiologo con la risonanza magnetica del paziente: Bonucci non era in offside perchè a tenerlo in gioco c’era il vecchio Candreva. Assurdi i processi all’arbitro Marcenaro che è invece l’unico elemento da salvare, in quanto capitale umano: fallibile con la sua interpretazione da arbitro errante, in quanto uomo “erra”. È dai tempi di Aldo Biscardi che dal suo “Processo” ululava in molisano di Larimo: «Vogliamo la moviola in campo!», che il dibattito sulla tecnologia applicata al calcio ha preso una china che esula dallo sport ed entra in ambiti scientifici che non dovrebbero riguardare un gioco. Anche se si tratta del gioco più oneroso dell’universo e anche la disciplina più popolare, un pallone da calcio rotola anche in questo istante in ogni angolo del pianeta terra. Ma la tecnologia ha reso il calcio una disciplina marziana e i suoi interlocutori degli ectoplasmi che si adeguano. «Gli unici protagonisti sono i calciatori», ha sbraitato l’allenatore della Juventus Max Allegri, che predica bene quando fa il filosofo della «semplicità del gioco del calcio», ma poi razzola male quando recita il ruolo della parte lesa nella vicenda con la Salernitana. «Il calcio non è nè meglio nè peggio, è come tutto il resto», ha detto Gianni Rivera, e infatti anche in questo universo di cuoio le cose sono peggiorate radicalmente da quando i social hanno preso il controllo totale del campo. La deriva dei twitter dei calciatori e allenatori che commentano qualsiasi episodio, prima, dopo e perfino durante la partita. «Una storia dovrebbe avere un inizio, una metà e una fine, ma non necessariamente in quest’ordine», ha detto il maestro della Nouvelle Vague Jean-Luc Godard, «il genio del fallimento» come abbiamo titolato lo splendido pezzo amarcord di Goffredo Fofi. Tempo fa lo scrittore inglese David Winner sulla rivista “Undici” parlò dell’invasione barbarica dei social nel calcio partendo proprio dalla passione per il calcio del regista francese che amava gli «improvvisatori anarchici dell’Ungheria nell’era di Puskas o dell’Ajax di Cruijff». Nel suo Pierrot le fou, ricorda Winner, che Godard in un cameo utilizza il vero regista americano Sam Fuller, il quale definisce il cinema in un modo che si potrebbe applicare benissimo anche al calcio: «Un film è come un campo di battaglia. Amore, odio, azione, morte. In una parola, emozione». Ecco che cosa abbiamo perso un po’ tutti, per colpa di questo calcio liquido che annega nell’era digitale: la capacità di emozionarci. La “Z generation” non riesce più a seguire tutti i 90 minuti di una partita di calcio, e allora che fa? La sintetizza mentalmente con gli highlights, entra a piedi uniti di twitter e con un colpo di tastiera stoppa il tiki-taka con il TikTok. Tu chiamale se vuoi emozioni, già, ma quelle perdute.
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