martedì 25 marzo 2025
Il direttore dell'Istituto Mario Negri spiega che cosa ha funzionato nelle terapie del Gemelli. «La prognosi era infausta, ma le cure ricevute da bravissimi infermieri hanno fatto la differenza»
Il professor Giuseppe Remuzzi

Il professor Giuseppe Remuzzi - Avv

COMMENTA E CONDIVIDI

«Un paziente di 88 anni che mi arriva in ospedale con precedenti malattie polmonari, con un’insufficienza respiratoria cronica, e che ha sviluppato una malattia virale con sovrainfezione di diversi batteri, da cui una polmonite bilaterale, ha una prognosi del tutto sfavorevole. Dunque, l’evoluzione che il paziente Francesco ha avuto è la migliore che si potesse immaginare». Il professor Giuseppe Remuzzi, nefrologo e immunologo, direttore dell’Istituto Mario Negri, parla di Francesco «non come del Papa, ma di un paziente come gli altri, la cui storia clinica e umana ci insegna molte cose».

Come si spiega un’evoluzione così diversa dalla prognosi, con un ritorno a Santa Marta?

Bravissimi gli infermieri! E bravi i medici, che hanno fatto una scelta fondamentale dandogli l’ossigeno ad alti flussi, una modalità che solo cinque anni fa non esisteva. Prima i pazienti con insufficienza respiratoria potevano solo essere intubati e quindi attaccati a macchine per la ventilazione meccanica, una tecnica che certamente aumenta il flusso di ossigeno ma spesso dà complicazioni notevoli, basti dire che molti non riescono più a svezzarsi dalla macchina che ha respirato per loro. Decidere di evitarlo è stata una mossa impeccabile, rispetto a quello che sarebbe potuto succedere al Papa. Guardi che i risultati su un paziente così complesso derivano da una somma di scelte apparentemente piccole ma vitali, che evitano le complicanze e aumentano esponenzialmente il comfort del malato.

Lei parla di infermieri bravissimi e di medici bravi. Una differenza casuale?

Niente affatto. Questi malati guariscono perché hanno avuto dei bravi medici, ma soprattutto dei bravissimi infermieri. Sono le piccole cose che portano alla guarigione, o comunque all’evoluzione favorevole di un paziente così grave. Francesco ha avuto la migliore evoluzione che si potesse sperare e quando accade questo vuol dire che si sono avute tutte le attenzioni minime necessarie: l’attenzione alle vene, al decubito, alla posizione, a muovere il paziente, alla sua alimentazione, all’idratazione... Sono azioni cruciali e le fanno gli infermieri. Poi i medici del Gemelli sono stati eccellenti, ma il Papa ha certamente ricevuto cure di supporto ottimali: si vince o si perde a seconda di queste. Basta un niente perché un malato così fragile, che più volte è stato vicino a morire, sviluppi ad esempio una sepsi, l'infezione vada nel sangue, da lì nel cuore. Inoltre però io credo che questo caso sia esemplare perché si sono evitati due rischi classici. Il primo è il cosiddetto rischio del "pazienti illustri": paradossalmente vanno peggio rispetto ai malati "normali", perché intorno a loro c'è sempre un corredo di persone che si danno da fare e ognuno propone strategie e farmaci diversi. Anche in questo i medici del Gemelli sono stati molto bravi. Il secondo rischio che qui si è evitato è quello del cosiddetto "vietato strafare": tanti medici, dal cardiologo al pneumologo al nefrologo, si alternano attorno al paziente e ognuno si occupa del suo pezzetto, ma poi è vitale che ci sia una figura professionale, una sola, che dica "questo paziente è mio" e prenda le decisioni. Credo che la mossa vincente al Gemelli sia stata anche questa: se il paziente è di tanti, cioè "dell'organizzazione", non è di nessuno. Io ne sono convinto da sempre, ma l'evoluzione di Francesco ce lo dimostra in modo lampante. E' una visione controcorrente, può sembrare un ritorno al passato, invece è un proiettarsi al futuro, dopo aver constatato che l'organizzazione può essere impeccabile ma senza un singolo medico che si "occupa" del paziente e lo fa "suo" non funziona.

Il ritorno a casa, a Santa Marta, lo aiuterà?

In ospedale bisogna stare il meno possibile. L’ospedale è una grande cosa, infatti ha restituito alla vita un uomo che non sarebbe sopravvissuto senza ricovero, ma tornare a casa è sempre fondamentale. A Santa Marta avrà le sue suore, gli infermieri, il suo medico, senza i rischi dell’ospedalizzazione, come i germi resistenti ai farmaci che sono sempre in agguato. Attenzione, il Papa non è assolutamente fuori pericolo, ma è verosimile che continui a migliorare, perché l’aspetto psicologico di essere di nuovo a casa trasforma la vita di un paziente. Certe volte basta rimuovergli un sondino naso-gastrico per vederlo rifiorire, figurarsi l'effetto di un ritorno alle care abitudini e a un ambiente familiare. Non a caso ha detto “sono contentissimo” e qui si vede come è uguale a tutti i pazienti del mondo: l’essere Papa non ti protegge dall’esprimerti come gli altri uomini di fronte alla forte emozione di lasciare l'ospedale. Insomma, la sua malattia resta grave, ma la gioia di essere nel suo letto darà un grande aiuto alla cura.

Senza viaggi né contatti con la gente. Per ora o per sempre?

Roosevelt era in carrozzina e si chiedeva come avrebbe potuto guidare gli Stati Uniti in quella condizione, ma un suo collaboratore gli ricordò che il Presidente lo si fa con la testa, non con le gambe. Il Papa dal punto di vista intellettivo è quello di prima e anche il Papa lo si fa con la testa. Certo, i viaggi non riuscirà magari a farli e nell’incontro con le persone dovrà essere molto prudente, ma io credo fermamente che per gli ammalati la cosa più importante sia che facciano quello che si sentono, a costo di rischi in più. Se il Papa preferirà incontrare la gente, sarà importante che lo faccia, anche contro il parere di noi medici, perché ne va del suo rapporto con la vita e con il mondo, specie con una responsabilità come la sua. Questo lo renderà più desideroso di riprendere il suo lavoro e lo preserverà da situazioni di depressione, che sarebbero deleterie per la guarigione.

Per noi pazienti, ma anche per voi medici, che cosa ci racconta questa storia dal punto di vista umano?

Ci racconta quello che in inglese si chiama never give up, mai gettare la spugna. Le persone anche fragili, anziane, con una situazione che ti fa dire “tanto non c’è niente da fare”, a volte possono riprendersi, se fai le cose bene, senza per questo incorrere nell’eccesso opposto delle cure futili, sapendo cioè quando fermarsi. Nel caso del nostro paziente di 88 anni, che nessuno avrebbe pensato potesse più tornare a casa, non c’era ragione di fermarsi. Questa è la più grande lezione per noi e la consolazione per tanti ammalati.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: