Il suo 60° anniversario è caduto l’altroieri, 4 dicembre, ma pochi in Rete l’hanno ricordato. Sto parlando del decreto Inter mirifica che il Concilio Vaticano II dedicò agli «strumenti della comunicazione sociale». Muovendosi con un mese di anticipo, le università pontificie legate «dall’insegnamento e dalla ricerca in materia di comunicazione » (Santa Croce, Lateranense e Salesiana), col patrocinio del Dicastero per la comunicazione, gli hanno dedicato dal 7 al 9 novembre scorsi un convegno (Massimiliano Padula ne ha scritto qui su “Avvenire” cartaceo e sull’agenzia Sir), ma senza suscitare nell’infosfera ecclesiale ulteriori interventi, se si eccettua un’ampia rievocazione storica postata su Settimananews dall’arcivescovo emerito di Catanzaro-Squillace Vincenzo Bertolone. Bene ha fatto allora Paola Springhetti, giornalista sensibile alle questioni di mediaetica, a prendere la parola, proprio nel giorno dell’anniversario, sul blog collettivo “ Vino Nuovo”. È consapevole che «in questi sessant’anni è cambiato tutto, nel mondo dei media: allora la televisione era comparsa da poco», ci si informava sui giornali e alla radio e « non c’era Internet, non c’erano i social, men che meno c’era l’intelligenza artificiale». Eppure, dice Springhetti, quel testo «ha qualche cosa da dirci anche oggi», sia rispetto al riconoscimento ecclesiale del contributo dei media (in particolare dei nuovi media digitali) alla costruzione delle relazioni, sia rispetto al fenomeno, oggi così avvertito, del «disordine informativo». Tra le sue componenti di quest’ultimo, quali il sovraccarico delle informazioni, gli algoritimi che usano i nostri dati per decidere che cosa farci vedere e cosa no, la disinformazione, la mala informazione e la misinfomazione, l’autrice si sofferma su quest’ultima: è «quella dinamica in base alla quale i cittadini condividono fake news e informazioni manipolate, e contribuiscono a farle girare» e in tal modo a «diffondere il risentimento sociale ». Questo ci rende responsabili di ciò che Inter mirifica afferma come diritto non solo all’informazione ma a un’informazione volta al bene comune. Perché oggi, nell’era digitale, «l’impegno a costruirla – conclude Springhetti – non appartiene solo ai giornalisti e alle categorie professionali, ma a ogni cittadino».
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