Una via del centro di Kigali, capitale del Ruanda
«Molto sta cambiando. Le voci dell’Africa stanno diventando più capaci di farsi ascoltare. C’è un profondo desiderio di vedere l’Africa rivalutata dagli africani stessi. Africani che stanno cercando di affermarsi, non solo dicendo le cose giuste, ma facendo le cose giuste». È l’opinione di Paul Kagame, presidente del Ruanda, 60 anni a ottobre, che punta alla riconferma nelle elezioni che si tengono oggi. C’è chi lo considera un visionario, un esempio da seguire per il resto dei Paesi africani. Altri invece lo ritengono un capo di Stato autoritario e senza scrupoli. Le critiche contro di lui sono molte. Provenienti soprattutto dai media e dai funzionari delle principali ex potenze coloniali in Africa: Francia e Gran Bretagna. «Molti africani vedono il Ruanda di Kagame come un modello – titolava il 15 luglio un articolo del settimanale britannico The Economist –. Si sbagliano». Nonostante tutte le perplessità rispetto al cosiddetto 'esperimento ruandese', una cosa è però certa: da quando Kagame è salito al potere il 22 aprile del 2000, dopo uno dei periodi più bui per l’intero continente africano, in Ruanda regna la pace. Una pace tesa e, per certi aspetti, molto fragile. Ma nutrita giorno dopo giorno da chi vuole risanare i traumi causati dal genocidio interetnico del 1994, in cui vennero massacrate oltre 800mila persone, soprattutto tutsi e hutu moderati.
«Potrebbe essere che sotto la patina della 'riconciliazione' ci sia in verità ancora molto odio e che la personalità e che il carattere duro di Kagame riesca a mantenere il tutto insieme – commenta Fareed Zakaria, noto analista dell’emittente statunitense Cnn –. Però il suo obiettivo è costruire istituzioni forti di modo che tale processo continui anche quando lui non ci sarà più». I dati sono inequivocabili: in media la crescita del Prodotto interno lordo ruandese, dal 2001 al 2014, è stata del 9%. «Se nel 2016 la crescita ha raggiunto il 5,9% – recita un comunicato del Fondo monetario internazionale –, prevediamo una nuova crescita a partire dal 2018». Nel 1994, il 78 per cento della popolazione viveva sotto la linea di povertà, un dato ridotto al 39% nel 2015. L’aumento della ricchezza è legato soprattutto al basso livello di corruzione nel Paese. «Il Ruanda è diventato uno dei cinque Stati dell’Africa subsahariana meno corrotti», conferma un recente rapporto dell’organizzazione Transparency International. Tanto i commercianti locali quanto gli investitori stranieri continuano a celebrare il grado di sicurezza e affidabilità che incontrano quando fanno affari con i ruandesi. Le autorità vantano inoltre il maggior numero di donne impegnate in politica a livello mondiale. Le deputate occupano oltre il 60 per cento dei seggi in Parlamento, una tendenza direttamente legata all’aumento del benessere.
«Le donne ora si sentono molto più indipendenti, possono far carriera e essere coinvolte nelle questioni di eredità – sottolineano gli analisti –, diritti che prima non avevano». Dai tempi delle violenze, in cui gran parte delle scuole rimanevano chiuse a volte per anni, ora si stima che «quasi il 99 per cento dei bambini frequenti regolarmente le elementari». E sebbene circa il 35 per cento del budget nazionale provenga dagli aiuti esterni, il governo ha l’ambizione di trasformare il Ruanda. «Da un’economia a basso reddito basata sull’agricoltura – sostengono i governanti locali –, entro il 2020 saremo un Paese a medio reddito dotato di un’economia basata sulla conoscenza tecnica e costruita per fornire servizi». Dei circa 11 milioni di abitanti, l’83 per cento vive in zone rurali. Ecco perché Kagame ha fatto del settore agricolo una delle sue piattaforme di lancio. «Gli aiuti umanitari come sono strutturati oggi non funzionano – ha spesso dichiarato il capo di Stato –. Il processo di riforme cui i governi africani cercano di ispirarsi deve essere spinto da fattori interni, non da condizioni imposte dai Paesi donatori».
È così che le autorità si sono messe in prima fila per tentare di innovare la loro agricoltura e prevenire possibili disastri umani e ambientali. «Siamo un piccolo Paese in cui i figli che crescono dovranno dividersi la terra dei propri genitori», spiega Gerardine Mukeshimana, ministro dell’Agricoltura e delle risorse animali. «Abbiamo quindi un problema legato alla riduzione della terra nel lungo termine. Avendo però il Ruanda un territorio molto collinoso – continua Mukeshimana –, stiamo occupandoci di quei terreni che in passato non sono mai stati usati a causa della difficoltà di lavorarli. Per questo abbiamo lanciato il 'land husbandry', un nuovo programma comprensivo». Tale politica utilizza le risorse agricole in collina attuando dei 'terrazzamenti radicali', di modo da rendere più accessibile le coltivazioni ai contadini. Un fondo è stato invece istituito dal ministero per adattarsi meglio al cambiamento climatico. «Il settore agricolo impegna il 75 per cento della popolazione – spiega Mukeshimana – , perciò stiamo preparando i nostri coltivatori e allevatori per il futuro, aiutandoli a mitigare le peggiori conseguenze del riscaldamento».
Ora, grazie a un altro programma governativo, vengono invece costantemente immagazzinate quantità di grano per rifornire le «riserve strategiche nazionali». Inoltre, è stato lanciato il 'food for work', cibo per lavoro. Le persone lavorano quindi sui loro terreni facendo terrazzamenti e il governo ricambia con cibo. Un altro settore assai migliorato rispetto al passato è quello della salute. «Con l’aiuto dei donatori occidentali – evidenziava un articolo del New York Times –, 108mila ruandesi possono essere curati per l’Aids rispetto a zero ruandesi, come accadeva dieci anni fa». Circa il 98 per cento della popolazione ha inoltre un’assicurazione sanitaria che, puntando soprattutto sulle cure preventive, offre gratuitamente zanzariere contro la malaria e diversi vaccini. Negli anni si è invece formato un sistema computerizzato nazionale che permette di registrare i dati sanitari dei pazienti e agevola la comunicazione degli operatori nei villaggi con la capitale Kigali. Malattie come malaria, polmonite e diarrea sono ora curate da 8mila infermieri e da un nuovo gruppo di 45mila operatori sanitari eletti nei loro villaggi. Tutti questi successi non sarebbero però stati possibili senza il principio di riconciliazione su cui tutti stanno ancora duramente lavorando. «Il Ruanda è un Paese da post-conflitto unico nel suo genere – ha detto lo scrittore statunitense Phillip Gourevitch, tra i più grandi conoscitori americani del genocidio ruandese –. Mentre sarebbe stato impossibile vedere ebrei e nazisti vivere nello stesso posto dopo l’Olocausto, qui invece vittime e carnefici convivono fianco a fianco».
Nel 1994 il genocidio: 800mila morti in cento giorni
Gli esperti stimano che ci siano state circa 800mila vittime causate dal genocidio in Ruanda dopo anni di tensione tra le etnie hutu e tutsi (nata soprattutto nel periodo coloniale). Alcuni dati parlano di almeno un milione. Non è neanche certo chi, tra estremisti pro-governativi (hutu) e ribelli (tutsi), lanciò il razzo che il 6 aprile 1994 colpì l’aereo presidenziale uccidendo l’allora leader, di etnia hutu, Juvénal Habyarimana, insieme al leader burundese, Cyprien Ntaryamira. I massacri che ne seguirono, perpetrati soprattutto attraverso l’uso di machete, spranghe e coltelli, durarono 100 giorni. Furono eccidi spaventosi che videro il mondo inerte di fronte a un bagno di sangue con pochi precedenti provocato principalmente dagli hutu sostenuti dal governo. Paul Kagame, di origine tutsi, formatosi soprattutto nel conflitto del vicino Uganda, era al comando del Fronte patriottico del Ruanda (Fpr), il gruppo di ribelli che riuscì a prendere la capitale Kigali il 4 luglio, data che diventò una festa nazionale. Resta ancora acceso il dibattito sul ruolo della Francia durante il genocidio, con Parigi accusata di aver sostenuto militarmente le milizie hutu. Negli ultimi anni, invece, sono stati arrestati diversi responsabili ruandesi delle violenze che erano fuggiti all’estero.