Una miccia si riaccende
martedì 15 novembre 2022

Colpire Istanbul significa colpire la Turchia. Non quella del potere, rinchiusa nei suoi palazzi di Ankara, ma quella che da sempre affascina e attrae i cittadini del mondo. Istanbul è città caleidoscopio, amata da visitatori e intellettuali, aperta e secolare, nonostante i tentativi del presidente Erdogan di “normalizzarla”. È inevitabile allora che un attentato che ne colpisca una delle zone più turistiche abbia una vasta eco e ponga tutta una serie di interrogativi.

Domande a cui appare ancora difficile dare risposte credibili. Innanzitutto chi e perché lo ha voluto. Le autorità turche sono state lestissime a trovare i colpevoli, ossia i curdi del Pkk (organizzazione curda che la Turchia combatte anche con brutalità da decenni), assieme al Pyd e al Ypg, ossia formazioni considerate terroristiche da Ankara, ma che hanno goduto di forte sostegno in Occidente, dato che difendono la minoranza curda in Siria e hanno contrastato i movimenti dell’attivismo islamico più integralista. Colpire la Turchia proprio ora e con un attacco così odioso, mentre Erdogan cerca di difendere il suo declinante potere semi-autocratico in vista delle prossime elezioni politiche, sembra quasi autolesionista.

Al punto che, da più parti, si sono avanzati dubbi, soprattutto dopo le secche smentite del Pkk. Le dinamiche del terrorismo sfuggono molto spesso alla nostra razionalità, ma è evidente come questo evento offra il pretesto per una possibile nuova operazione militare turca nella Siria settentrionale.

Dopo la vittoria militare del presidente Assad, Ankara controlla la regione di Idlib, piccola e dilaniata da lotte intestine fra diverse milizie jihadiste protette dai turchi, e una “fascia di sicurezza” lungo le sue frontiere. Non è un mistero che Erdogan punti ad allargare questa fascia di controllo per trasferirvi buona parte dei milioni di profughi siriani ospitati nel suo Paese (e per i quali riceve miliardi di euro dall’Unione Europea). Riuscire a compiere tutto ciò prima delle elezioni del prossimo giugno sarebbe importante per la sua popo-larità. Così come criminalizzare la componente curda, o creare un clima di insicurezza, giova al mantenimento del suo potere.

Vi è anche un’altra partita, dalle dimensioni geopolitiche più ampie. Il presidente turco gioca infatti da anni con cinismo una partita da “battitore libero”: membro della Nato ma vicino alla Russia, mediatore nella guerra in Ucraina ma riluttante a imporre sanzioni. Insomma gioca al rialzo ora su uno, ora sull’altro tavolo. Quando Svezia e Finlandia chiedono di entrare nella Nato (e per essere accettati occorre l’unanimità di tutti i membri), ecco allora che Erdogan vincola il suo sì a una serie di richieste. Le più odiose sono proprio quelle legate ai profughi curdi, accolti in gran numero dai Paesi scandinavi. Molti di essi sono per Ankara “terroristi” e come tali vuole che vengano trattati. Soprattutto, si esige la fine del sostegno occidentale ai movimenti curdi. Non a caso la Turchia ha rifiutato con malagrazia la solidarietà statunitense, dicendo che non poteva essere accettata dato che veniva da chi arma quelle forze terroristiche. Uno sgarbo diplomatico che segnala lo scontento verso quel sostegno, per quanto ormai limitato.

Il tutto mentre Erdogan deve gestire una situazione economica interna estremamente critica, anche a causa delle sue velleitarie politiche finanziarie, e uno stallo della sua proiezione geopolitica regionale. Dopo anni di contrapposizione con l’Egitto e le monarchie arabe del Golfo e di sovraesposizione regionale, Ankara ha cercato un riavvicinamento con i Paesi arabi sunniti: con gli Emirati perché dei loro soldi la Turchia ha disperato bisogno; con l’Egitto perché rimane un Paese chiave per la soluzione della crisi libica e per lo sfruttamento delle risorse energetiche nel Mediterraneo orientale. Anche in questo caso, i risultati sono stati inferiori alle aspettative. L’attentato scuote insomma un Paese cruciale geopoliticamente, ma vulnerabile: si capirà presto se si tratta di un evento isolato o di una nuova stagione di tensione. In questo caso, gli effetti economici della diminuzione del turismo internazionale sarebbero pesantissimi. Mentre una nuova avventura militare nella Siria settentrionale incrinerebbe i già fragili equilibri nel Levante e metterebbe in ulteriore impaccio la Nato che continua a consentire a uno Stato suo membro ciò che contesta alla Russia Putin: invadere un altro Paese.

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