Nel 68° giorno di guerra in Ucraina, il fatto più rilevante sul fronte internazionale è stata la discussione in seno alla Ue sulle importazioni di petrolio russo. Il provvedimento potrebbe essere graduale e portare a un vero stop totale solo dal 2023, se si troverà un accordo che non sembra ancora essere facile. Il nodo è dato dalle difficoltà del governo tedesco ad aderire a un embargo che preoccupa per le conseguenze economiche ed elettorali. Berlino dipende fortemente dal greggio di Mosca e deve trovare soluzioni alternative che non siano troppo onerose. Se anche andasse in porto questa nuova, importante sanzione, sarebbe comunque una mossa tardiva, dato che sembrano essere queste le settimane decisive del conflitto in cui agire con decisione. Si avvicina il 9 maggio, data ritenuta cruciale per il Cremlino rispetto all’andamento della crisi. E anche la resistenza di Kiev, pur sostenuta dai crescenti aiuti occidentali, non può essere senza limiti.
Spingere sulle sanzioni economiche potrebbe essere la carta giusta perché l’Unione europea si ritagli un proprio ruolo, pur in sintonia con gli Stati Uniti, e spinga per una via negoziale alla soluzione del conflitto. Secondo l’economista e analista Anders Åslund, si tende infatti a sottovalutare l'impatto delle misure adottate e che ancora si potrebbero assumere contro la Russia.
Innanzitutto, le sanzioni finanziarie hanno avuto un impatto immediato ma, a parere di Åslund si faranno sentire ancora più duramente a mano a mano che le riserve rimaste libere della Banca centrale russa andranno ad esaurirsi e altre banche pubbliche e private saranno colpite da restrizioni sui mercati internazionali. Nelle prime cinque settimane dall’invasione, l’Istituto guidato dalla governatrice Ėl'vira Nabiullina ha speso circa 40 miliardi di dollari, avendo un tesoretto di 62 miliardi di riserve liquide non ancora congelate da Usa e Ue.
Grazie agli interventi della Banca centrale, il tasso di cambio del rublo è riuscito a superare il crollo iniziale ed è quasi tornato ai valori pre-crisi. Ma tali quotazioni sono difficilmente sostenibili, a meno che le aziende e gli Stati cosiddetti “ostili” non accettino di pagare gli acquisiti di energia in valuta di Mosca, cosa poco probabile su larga scala. Si può quindi prevedere che la divisa russa torni a cadere pesantemente. L’unica alternativa a disposizione delle autorità monetarie è passare a una regolamentazione con tassi fissi di conversione, un provvedimento che ha sempre contraccolpi negativi sulle imprese e sui cittadini.
Ma, dicono gli osservatori economici, il controllo delle esportazioni occidentali può essere la vera arma per portare la Russia al tavolo dei negoziati. Attualmente, Mosca non può importare quasi nulla di ciò di cui ha bisogno come elemento di base per la sua produzione manifatturiera. Alla lunga, non potrà produrre automobili, carri armati, missili, prodotti per l'igiene e nemmeno carta per la stampa. La tecnologia o la materia prima importate sono necessarie in tutte le filiere principali, perché il Paese non è autonomo, avendo puntato tutto sull’export di gas, petrolio, carbone e pochi altri prodotti.
Anche la maggior parte dei trasporti - aerei, camion, treni e spedizioni - sono sotto sanzioni, aggravando le misure commerciali. Inoltre, la Russia è diventata “non assicurabile” e quindi molte transazioni sono rese molto più complesse a Mosca o con Mosca, quando addirittura non più realizzabili in mancanza delle consuete coperture. A questo punto, fermare le importazioni di carbone (già decise, a partire da agosto) e quelle di petrolio (forse completamente dal prossimo anno) e quelle di gas (le più onerose per l’Europa) darebbe un colpo fatale all’economia russa. Va considerato inoltre che già 7. 700 grandi multinazionali hanno deciso di smettere di fare affari con il Paese per non compromettere la propria reputazione. La previsione di calo del Pil nel 2022, oggi del 10-15%, diventerebbe quindi molto ottimistica. Spingere concordi su questo tasto avrebbe l’effetto di fiaccare la leadership di Putin e alimentare lo scontento e forse la protesta popolare.
Sullo sfondo della giornata, la coda polemica dell’intervista del ministro degli Esteri di Mosca Serghei Lavrov a Rete4, domenica sera. Inquieta il risorgere di sentimenti antisemiti ad aggravare il quadro di falsità e propaganda che il Cremlino continua a spargere sui propri crimini di guerra compiuti nell’Ucraina invasa. D’altra parte, le proteste, più che prendere di mira la tv e il giornalista che ha realizzato lo scoop, dovrebbero riguardare il contenuto delle affermazioni minacciose del capo della diplomazia russa, ben poco diplomatico nel minacciare l’Italia per il suo impegno al fianco di Kiev.