La notizia proveniente dalla patria dell’Illuminismo e della rivoluzione (la Francia) che l’aborto, almeno al momento, non possa rientrare fra i diritti costituzionali di quella nazione, significa, tra l’altro, che una scelta di morte non deve, né dovrebbe mai, essere affermata fra i diritti fondamentali dell’uomo, inteso come esser umano (uomo e donna).
Qui non è in gioco l’essere di destra o di sinistra, si tratta invece di ascoltare la voce della “ragione”, che il secolo dei Lumi ci ha insegnato a esercitare per continuare a sostenere che i diritti umani possono solo e semplicemente ancorarsi alla vita, diversamente si tratterebbe di “non-diritti anti-umani”.
Ed è proprio su questo diritto alla vita che si è legiferato nel momento in cui, nel nostro Paese, si è depenalizzata la pratica abortiva, onde evitare che il dramma delle donne, per qualsiasi motivo, costrette a praticarla, finisse col produrre ulteriore morte, con gli aborti clandestini, praticati dalle cosiddette “mammane”. Medici senza frontiere, in questo senso mi sembra giustamente puntare il dito contro l’«aborto non sicuro», denunziando il numero delle vittime della clandestinità.
Da tale situazione non si esce, però, affermando un diritto alla morte. E l’aborto è sempre tragedia.
Il fatto che determinate scelte, meramente “razionali”, coincidano con quanto insegna, nella sua tradizione e nel suo magistero, la Chiesa cattolica, non dovrebbe meravigliare, per il semplice motivo che la fede cristiana, nella sua forma cattolica, è sempre stata amica della ragione, allorché esercitata ed espressa laicamente con onestà intellettuale. Del resto, quando leggo sui media che alcuni esponenti dell’attuale maggioranza in Italia sarebbero “ultra-cattolici” non so se sorridere o indignarmi. Un cattolico non potrà mai essere “ultrà”, appellativo che si riserva ai frequentatori e tifosi degli stadi. Se qualcuno sta offrendo questa rappresentazione sarebbe utile un chiarimento, abbandonando la sciarpa identitaria per dire che non si è ultrà, ma semplicemente credenti in politica.
A proposito dell’aborto, non si tratta tanto del “diritto positivo”, bensì di quella, spesso bistrattata disciplina, che rappresenta anche un orizzonte speculativo teologico e filosofico, che si designa col nome di “filosofia del diritto”, di cui il collega e amico recentemente scomparso Francesco D’Agostino è stato illustre rappresentante laico perché cattolico e cattolico perché laico. Un pensiero radicalmente filosofico e per questo rigorosamente laico non può sottrarsi dal distinguere la vita dalla morte, onde arginare la progressiva invasione del nulla, che, nella mirabile rappresentazione di La storia infinita di Michael Ende, attenta l’universo della fantasia vitale, col rischio di sprofondare l’universo e l’uomo in un abisso.
Da questo quadro teoretico, e dalla presa d’atto che nessuna delle forze politiche attuali si propone di cambiare la legge 194, risultano almeno tre conseguenze per l’azione del governo che si è appena insediato su altrettanti temi definiti eticamente sensibili.
La prima conseguenza si configura nel senso del ripensamento dell’applicazione della 194 stessa, offrendo – come “Avvenire” propone da tempo – strutture e risorse perché si rimuovano le cause sociali, economiche e direi culturali, che inducono le donne alla pratica abortiva. E facendolo in modo continuo e non solo episodico.
La seconda conseguenza riguarda il fine vita. Se vogliamo sottrarci dalla complicità con chi lavora per diffondere una cultura della morte, dobbiamo a nostra volta impegnarci tutti per evitare al tempo stesso ogni accanimento terapeutico, ma anche ogni induzione al cosiddetto “suicidio assistito”. È il messaggio che lancia anche il film di Rodolfo Bisatti “Al Dio ignoto”, dove, in un hospice per malati terminali, fra una partita a scacchi e occasioni di preghiera ispirate alla famosa poesia di Friedrich Nietzsche (che porta il titolo dello stesso film), si esprime il distacco nel dire “Arrivederci!” a chi ha accompagnato il morente.
Infine, terza conseguenza, ritengo che davvero sia necessario, proprio in virtù del diritto inalienabile alla vita e non alla morte, che il Parlamento si pronunzi sull’omofobia, indicandola come un vero e proprio crimine e richiamando un’unica ineludibile condizione: che non si criminalizzi chi continua a pensare, credere e annunziare che la famiglia e il matrimonio non appartengono né a una cultura patriarcale né a comportamenti violenti nei confronti di chi vive drammaticamente o serenamente esperienze difformi. In questo orizzonte la famiglia che riconosce l’alterità del maschile e del femminile non sarà mai un vessillo col quale inveire sulle altrui condizioni e appartenenze, ma una proposta serena e accogliente di un modello umano nel quale l’essere altro (uomo e donna) risulta inscritto nella stessa corporeità e fisiologia delle persone, che, comunque e sempre, meritano attenzione e rispetto.