«The brutalist» è un film bellissimo, ma perché non è stato vietato ai minori?
venerdì 21 febbraio 2025

The Brutalist è senza dubbio un bel film. La storia dell’immaginario architetto ungherese, scampato al campo di concentramento, che emigra in Usa e lì faticosamente cerca di dare spazio al suo straordinario slancio creativo, è raccontata con mezzi tecnici impeccabili e offre alcune sequenze di rara poesia e suggestione. Ma non è un film per bambini. Non lo è per il generale clima cupo e oppressivo che aleggia sulla vicenda e i personaggi e non lo è perché contiene scene di sesso piuttosto esplicite, violente – compreso uno stupro – e altre, ripetute, in cui si mostra l’uso di sostanze stupefacenti iniettate in vena, con anche una delle protagoniste che finisce in overdose. Eppure in Italia – solo in Italia – The Brutalist è in sala senza alcun limite di età: è semplicemente sconsigliato ai minori di 6 anni (sì 6, non 16). Un rapido confronto con altri Paesi, alcuni non certo inclini a eccessive restrizioni, ci dà la misura della sproporzione. Nel Regno Unito, in gran parte del Canada e in Brasile la pellicola è vietata ai minori di 18 anni, mentre in Finlandia, Olanda, Nuova Zelanda e Spagna il limite è fissato a 16 anni e negli Stati Uniti a 17. In Svezia e Danimarca ci si ferma a 11 e in svariati altri Stati l’età minima per la visione è 14 anni, o 13, come in Francia, dove il film è sconsigliato sotto quell’età.

È certamente improbabile che The Brutalist venga proposto a bambini o preadolescenti, per la complessità del tema e anche la durata-fiume di 3 ore e mezza, ma non è impossibile. Il consiglio di un limite di età è dunque utile, anche soltanto per mettere sull’avviso i genitori, e in generale per comunicare a tutti i potenziali spettatori un profilo di speciale problematicità dei contenuti e richiamare un’attenzione supplementare. In altri termini, un messaggio per tutti che rispecchia una condivisione di valori e il rilievo conferito da una comunità alla tutela dei minori. Non un messaggio da poco. È in corso, da noi e nel mondo, un proficuo dibattito sull’età minima per l’accesso ai social media, che giustamente sta riportando in primo piano la responsabilità del mondo adulto nel proteggere i minori nell’ambiente digitale, nel quale però le difficoltà tecniche sono notevoli e non è banale trovare una soluzione che tuteli la privacy e allo stesso tempo sia efficace nel verificare l’età di chi si vuol collegare a un sito o a un servizio social non avendone i requisiti.

Le pressioni da più parti sono altissime, si sta lavorando e auspicabilmente si arriverà in tempi non lunghi a una soluzione. Ma c’è da chiedersi se servirà davvero a qualcosa. A che pro fornire una complessa soluzione tecnica a un mondo adulto che non sa che farsene, visto che non è disponibile ad assumersi fino in fondo la responsabilità di stabilire che cosa sia adeguato a un bambino e che cosa invece non lo sia; a un mondo adulto che sembra aver perso la consapevolezza di cosa sia davvero l’infanzia e di quali sono le sue reali esigenze (qualsiasi psicologo può ad esempio confermare che la capacità di distinguere tra realtà e finzione si acquisisce in modo lento e graduale a partire dai 7 anni per arrivare fino ai 12). Per quale oscuro incantesimo proprio qui in Italia si trascura una misura semplice come quella d’imporre un congruo limite d’età a una pellicola in sala, la cui efficace verifica risulta fin banale (l’esibizione di un documento alla biglietteria, o un’occhiata di chi dà accesso alla sala).

Forse – temiamo – perché in fondo poco importa realmente di lasciar galoppare senza ostacoli quel processo di corrosione dell’infanzia che accerchia da più parti i bambini forzandoli a crescere anzitempo e a diventare assidui consumatori al pari degli adulti, come testimonia peraltro la cronaca di questi giorni, con piccole di 4 anni che organizzano feste di compleanno dall’estetista o ragazzini che si vestono da carnefice di Squid Game per Carnevale (ne abbiamo letto in questi giorni proprio su Avvenire). Di cosa ci si può stupire in fondo se siamo noi adulti per primi ad aver rinunciato al nostro imprescindibile ruolo per piegarci al dilagare inarrestabile del mercato?

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