Con un comunicato diffuso nella notte di domenica è nata la SuperLega, 12 grandi club calcistici europei decisi a fare da soli un proprio torneo. Se ne parlava già da tempo, ma dalle parole si è passati ai fatti, o almeno, ci passerà «il prima possibile». Non c’è da esprimere un giudizio morale, ma da riflettere, E c’è da cogliere nella risposta del massimo organismo calcistico europeo, l’Uefa, un invito a non trascurare una riflessione etica ed estetica, proprio in questo momento «in cui la società ha più che mai bisogno di solidarietà».
Forse può apparire un po’ 'cinico', eppure non si può negare a un’azienda privata il diritto e la possibilità di cercare sbocchi commerciali, alla ricerca di nuovi mercati con conseguenti profitti che sgorgano da prodotti più appetibili e affascinanti.
D’altra parte, a essere onesti, partite di 'cartello' come quelle che potrebbero essere giocate nella superLega, i ragazzi le hanno sempre giocate. Certo alla Playstation, ma pur sempre sfide tra le più grandi squadre d’Europa. Solleticare la fantasia, regalare un sogno, far percepire di non poterne fare a meno è l’anima dei più grandi venditori del mondo. È la logica economica. Proprio ora che sembra intravedersi una luce in fondo al tunnel dopo mesi di pandemia e il Paese comincia a prepararsi a una prudente ripresa, abbiamo tuttavia bisogno di etica e di estetica per rendere il mondo più giusto e più bello. È un invito per tutti, anche per il mondo del pallone, ad assumersi le proprie responsabilità.
«Il campione diventa, per forza di cose un modello d’ispirazione per altri, una sorta di musa ispiratrice, un punto di riferimento», ha detto papa Francesco in un’intervista alla 'Gazzetta dello Sport'. Che modello ispira la scelta di una frattura proprio ora che il vento e la burrasca sembrano placarsi e quella barca dove ci eravamo stretti insieme per sentirci più forti sembra diventare troppo piccola per starci tutti ed è meglio allontanare i passeggeri più deboli? Già i 'deboli' dello sport sono stati allontanati da troppo tempo. Migliaia di ragazzi costretti a lasciar impolverare maglie e scarpini e attrezzature perché campi e palestre e piscine erano chiusi. Le loro attività non erano essenziali per profitti e successi. Ora sembra che nello stesso mondo dello 'sport che conta' non ci sia posto per tutti, qualcuno è di troppo.
Come qualcuno sembra essere di troppo in questa nostra società che rischia di ricominciare ancora con una dinamica di profitto e diseguaglianze a scapito di coloro che finiscono con l’essere «scarti e avanzi». Lo sport è sempre stato un mondo capace di «riflettere i princìpi fondamentali di solidarietà, inclusività e integrità» per tutti e non solo per i più fortunati. In quello spazio affascinante che è il terreno di gioco abbiamo assistito nella storia a imprese in stile 'Davide contro Golia', ovvero a partite impossibili che a volte terminano nel modo più inaspettato. Nel calcio come nella vita può capitare che una formazione di dilettanti come il Calais arrivi a giocarsi la finale di Coppa di Francia contro il Nantes, perdendola per un rigore al novantesimo minuto.
La possibilità di partecipare non può essere data dai soldi, dal prestigio e neppure dalla storia passata, ma da quell’inesauribile voglia di accarezzare un sogno mettendocela tutta, soprattutto là dove madre natura e destino sono stati avari. Lo sport ha sempre insegnato che all’inizio di ogni gara si parte alla pari non già sconfitti. È questo che rende la sfida emozionante e valorizza i piccoli o grandi talenti di ognuno. In questi tempi di pandemia, abbiamo sentito a più riprese che «nessuno si salva da solo», o ci salviamo tutti o nessuno si salva. Allora perché dare segni di separazione e di chiusura ostinata? Il calcio nella sua gioia più grande, il gol, festeggia con un abbraccio, in campo e sugli spalti. Nessuno può farlo da solo. Abbracciarsi è possibile solo se esiste un ricongiungimento con l’altro. Il monito paradossale di Sartre ci insegue e si capovolge: l’inferno non sono gli altri, l’inferno è l’assenza degli altri.