Gentile direttore,
circola nel laboratorio del legislatore una proposta di criminalizzazione del negazionismo, pressoché unanimemente approvata. La pena prevista per l’istigazione pubblica a commettere delitti (reclusione da uno a cinque anni) si applicherebbe dunque anche a chi «nega l’esistenza» dei più gravi crimini internazionali, cioè genocidio, crimini contro l’umanità, crimini di guerra. Di fronte a questa proposta occorrono parole chiare se pure scomode, non si può stare «un po’ sul pero e un po’ sul melo». È una proposta tanto stupida quanto pericolosa, sia per l’oggetto, sia per la fattura tecnica delle norme da introdurre. Per l’oggetto, perché per quanto odiose, infondate, irragionevoli possano essere le opinioni sugli eventi storici (genocidi, crimini contro l’umanità, crimini di guerra sono il male assoluto, i più gravi crimini contro la comunità internazionale in quanto tale), forse che si può legittimamente tappar la bocca a suon di minacce penalmente armate, in spregio all’articolo 21 della Costituzione? Negare, è solo manifestare un’opinione, per quanto folle essa possa essere (altro è, per intenderci, istigare a commettere quei fatti), e manifestare un’opinione è un diritto fondamentale. Torna alla ribalta quell’onirica, anzi delirante inclinazione dei legiferanti, come se non vi fosse già di meglio e di più urgente cui provvedere, a catechizzare i cittadini sul bene e sul male, su quali idee pensare, quali pubblicamente sostenere, quali ascoltare senza danno, pena l’intervento delle guardie coi baffi. È deprimente che dopo più di un lustro da un’analoga polemica si debba ancora una volta richiamare quanto aveva ammonito un lungo elenco di storici italiani. «È la società civile, attraverso una costante battaglia culturale, etica e politica, che può creare gli unici anticorpi capaci di estirpare o almeno ridimensionare ed emarginare le posizioni negazioniste. Che lo Stato aiuti la società civile, senza sostituirsi ad essa con una legge che rischia di essere inutile o, peggio, controproducente». E non è soltanto questione di "danni collaterali": l’illusione panpenalistica mostra di radicarsi in un’idea di società civile ineducata, ineducabile e da condurre per la cavezza dove vuole il padrone (soprattutto se politicamente corretto); magari è così, ma allora è necessario ribellarsi, e battere a tappeto le scuole, le parrocchie, i luoghi di ritrovo, le istituzioni, per far corsi di educazione civica, o forse soltanto di educazione, punto e basta. Altro che norme penali.
E, infine, che bell’esempio di schizofrenia legislativa. Si fa tanto dire della necessità di ridurre i reati, ridurre le cause dell’eccessiva carcerazione, e, da certe parti, si protesta persino contro i giudici forcaioli: non si trova di meglio che introdurre un nuovo reato, una nuova pena detentiva, e con questo si dà un’unzione sacerdotale da druidi laici ai giudici (nazionali o internazionali) i quali – si spera almeno dopo un giudizio definitivo – abbiano stabilito che un "crimine assoluto" è stato commesso.
Queste proposte, diremmo rubando le parole a Ludovico Antonio Muratori, son merce che merita più la luce delle fiamme, che quella del giorno.
Alberto di Martino, Pisa
Caro direttore,
le scrivo dopo aver letto su "Avvenire" del 17 ottobre, gli editoriali di Marina Corradi (che apprezzo toto corde) e della professoressa Donatella Di Cesare (di cui non condivido la conclusione). Premetto che sono nato nell’immediato dopoguerra (1946) in una città – Livorno – dove vi è sempre stata una grande e attiva comunità ebraica nota nel mondo, mai relegata in un ghetto, dove l’accoglienza e la compenetrazione degli "stranieri" è nel Dna storico della città fin dalla sua fondazione, dove – grazie al Camp Darby e alla presenza di molte navi militari Usa – incontrare per strada "neri" (allora si diceva "negri" senza alcun intento malevolo) era abituale e non suscitava alcuna curiosità. In altri termini, nella mia città il "razzismo" non è di casa; fin da bimbetto ho avuto come amici ebrei e protestanti. E vengo al dunque. L’ipotesi di rendere reato il "negazionismo" mi sembra un errore che, forse, potrebbe essere addirittura controproducente: la verità non si impone per legge, ma è la storia che la spiega e sono le testimonianze che la sostengono. Coloro che vogliono negare l’evidenza (tanto per le nefandezze naziste che per quelle di altri regimi sanguinari, quali, in epoca recente, la tirannia dei khmer rossi di Pol Pot che forse più di tutti si avvicina o eguaglia la follia hitleriana) troverebbero in una simile norma carburante per sentirsi nel "giusto" e considerarsi "emarginati". Per far sapere ai più giovani quale fu l’aberrante logica del nazismo non occorre una legge: occorre la memoria storica e occorre il ricordo, in particolare quello delle immagini.
Vede, caro direttore, chi ha la mia età o poco meno ha sentito raccontare dai propri genitori (e nonni) l’esperienza sanguinosa della guerra e la tragedia dell’antisemitismo che vissero in prima persona, spesso con il supporto della forza di immagini e documentari. Ho constatato che i nostri adolescenti non sanno gran che di quel buio periodo della storia che per loro è anagraficamente lontano, e rischiano di impararlo con vene di strumentalizzazione politica. Quest’anno ho portato la mia nipote (11 anni) in pellegrinaggio in Terra Santa e, a Gerusalemme, siamo ovviamente andati anche allo Yad Vashem, dopo averle spiegato la tragedia non solo della guerra ma della Shoah: il suo volto, nel vedere quelle tragiche testimonianze, si è stravolto, dimostrando una sofferenza interiore ben al di sopra di quella conseguente alle sole parole. Spazio, dunque, alle "Giornate della Memoria", ai documentari, agli insegnamenti a scuola, ma non a norme di legge che, pur nel lodevole intento di non far appassire il ricordo di tragedie così recenti, a ben vedere, rischiano di rafforzare altre norme contro la libertà di opinione. Il fascismo è stato maestro.
Alessandro Bassi Luciani, Livorno