I dazi di Trump possono e devono alla fine diventare un bluff, ma la cosa dipende anche da noi. La storia di questi giorni suggerisce chiaramente che il presidente americano agita la minaccia per realizzare una prova di forza: aumentare il suo potere contrattuale con le controparti (Messico, Canada, Cina, Unione Europea) e ottenere in cambio un vantaggio. L’annuncio dei dazi nei confronti di Messico e Canada ha prodotto due diversi tipi di reazioni. Quella accomodante del governo messicano, che per scongiurare il pericolo ha promesso l’invio di truppe alla frontiera in modo da frenare i flussi di migranti che illegalmente entrano negli Stati Uniti. E quella più dura del premier canadese Trudeau, che ha risposto minacciando di applicare una risposta eguale e contraria. Dopo queste due reazioni, Trump ha immediatamente sospeso, per un mese, l’imposizione dei dazi. Subito dopo li ha messi in vigore, generando la reazione immediata del Canada che risponderà con le stesse tariffe contro i prodotti degli Stati Uniti.
La Borsa americana ha immediatamente accusato il colpo con un ribasso, anticipando l’effetto negativo dei dazi. Viviamo infatti in un mondo profondamente interdipendente, dove in ogni filiera si arriva al prodotto finito venduto ai consumatori dopo un gran numero di passaggi di frontiera di materie prime o semilavorati. Nel caso specifico la divisione del lavoro è tale che le auto americane sono assemblate in gran parte in Messico, mentre il petrolio americano è raffinato in Canada. I dazi americani danneggeranno pertanto gli stessi Stati Uniti, aumentando i prezzi di prodotti realizzati in filiere solo in parte modificabili e sostituibili.
Insensata la giustificazione americana che chiama in causa il Fentanyl, una piaga di cui si è parlato più volte da queste colonne e che, come ricorda il Nobel Angus Deaton, alimenta la “morte per disperazione” di decine di migliaia di americani. Trump dovrebbe prendersela in questo caso con le ricette facili dei medici americani, che prescrivono farmaci a base di Fentanyl contro la depressione creando dipendenze. Non sono certo i dazi che possono incidere su un prodotto che è o legalmente prescritto o illegalmente circolato e la cui domanda è fortemente inelastica al prezzo.
Quanto alla minaccia di dazi verso l’Unione Europea e l’Italia, esistono stime dei possibili costi per il nostro Paese che vende negli gli Stati Uniti il 10% delle proprie esportazioni con prodotti in diversi settori (vino, formaggi, farmaceutica, macchine utensili, moda). Le stime parlano di 0,2/0,3% punti percentuali di Pil. Gli effetti dei dazi sono molteplici e complessi. Per prodotti di alta qualità consumati da fasce medio-alte di reddito (come formaggi e vini italiani) la domanda è piuttosto inelastica, e dunque i dazi si risolvono in aumento dei prezzi di prodotti che gli americani comunque compreranno, generando così tensioni inflazionistiche. Solo nel medio termine, se mantenuti in vigore, i dazi producono una ristrutturazione delle filiere. È il caso di quelli sulle auto cinesi. Ma come nel caso dell’analoga imposizione sulle vetture giapponesi negli anni Ottanta, in questo caso i dazi fanno nascere le “fabbriche cacciavite” in Europa, dove si assemblano le stesse auto cinesi per aggirare il pagamento. Un altro effetto di medio termine è la ricomposizione dei flussi commerciali, che rinforza le relazioni tra Paesi colpiti riducendo invece export e import del Paese che applica le tariffe. I dazi sono dunque un pessimo affare sia per chi li impone sia per chi li subisce: riducono gli scambi e fanno aumentare i prezzi dei prodotti.
Di diverso tenore è l’imposizione di regole minime di sostenibilità ambientale e sociale nel commercio. L’asticella sui diritti dei lavoratori oggi esiste, ma è molto bassa (divieto di prodotti dove è accertato lo sfruttamento o la violazione delle convenzioni dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro sulla schiavitù o sul lavoro minorile). Quella sull’ambiente è in corso di faticosa costruzione, con i meccanismi di aggiustamento alla frontiera (Border Adjustment Mechanism) per frenare la concorrenza sleale.
I dazi di Trump possono e devono risolversi in prospettiva in un nulla di fatto se eviteremo l’approccio accondiscendente (pessima ad esempio l’idea di ipotizzare acquisti di gas liquido e armi solo per placare il partner americano) e adotteremo invece quello fermo come nel caso della risposta di Macron, che si allinea a quella di Trudeau. Esiste una terza strategia, quella cinese: rispondere con contro-dazi di entità molto inferiore per dissuadere gli Stati Uniti dal proseguire, cercando di mantenere un contesto di armonia e di buone relazioni (una risposta in stile Confuciano).
L’appello canadese al “non comprare americano” è un esempio di come anche la società civile può dissuadere Trump dai suoi propositi. Il “voto col portafoglio” diventa in questo caso strumento di deterrenza per aumentare e rendere più visibili i costi della strategia americana. Gira in Rete un discorso (non autentico) della premier messicana che dice che il muro degli Stati Uniti alla frontiera del Messico non è una protezione degli Stati Uniti contro i migranti illegali, ma una barriera che li isola dal resto del mondo. I 7 miliardi di tutti quelli che sono fuori dalla cittadella fortificata hanno un potere enorme per dimostrare che l’isolamento commerciale non paga.
In estrema sintesi il mondo e i suoi problemi (clima, diseguaglianze, povertà) hanno estremo bisogno dei benefici della cooperazione multilaterale tra Stati. Le provocazioni di Trump in questa fase devono dimostrare per assurdo che, senza cooperazione, non si vive né si prospera, spingendoci rapidamente a tornare sul sentiero virtuoso.

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