Cosa rivela la decisione di rivedere il Reddito di cittadinanza
È sempre più chiaro perché il nuovo governo abbia voluto il merito tra le sue parole-chiave. Ce lo rivela anche il programma di ridimensionamento (da subito) ed eliminazione (dal 2024) del Reddito di cittadinanza (Rdc), perché il merito che giustificherebbe la riscossione del reddito sarebbe l’impossibilità di lavorare pur volendo lavorare. Se, invece, pur potendo lavorare qualcuno decide di non farlo, gli sarà tolto “anche quello che ha”. Nell’immaginario di chi ci governa, tra quel un milione circa di cittadini – che percepiscono in media attorno ai 500 euro mensili – ci sarebbe dunque una significativa quota di colpevoli.
Poi, uno guarda i dati e si chiede da dove provenga questa convinzione. Chi conosce almeno alcune delle famiglie percettrici di Rdc, sa benissimo che se queste persone non lavorano è quasi sempre per qualche ragione seria, ragioni complesse, ma la distanza tra i governanti e i poveri veri è un grande problema della democrazia. I potenti parlano di poveri in astratto come io parlo di Marte e di Saturno, quindi sono totalmente incompetenti in materia – incompetenza pratica e teorica. La povertà o, come preferisco dire per amore di Cristo e san Francesco, la miseria, è una questione di capitali non di redditi, lo andiamo ripetendo, invano, da almeno dieci anni su queste colonne. Chi è “povero” lo è per una mancanza cronica di capitali educativi, sociali, professionali, famigliari, sanitari, emotivi, relazionali, e questa mancanza di capitali (di stock) si manifesta in una mancanza di flussi (reddito, denaro). Ciò significa che se voglio combattere la povertà/miseria devo agire sui capitali delle persone e delle loro comunità, non sui redditi delle persone. Le povertà sono rapporti malati non solo portafogli individuali vuoti.
Togliendo il Rdc a chi è “occupabile” e non lavora si pensa di compiere un atto di giustizia. Dove sta l’errore? Nel pensare che chi non lavora essendo in condizioni oggettive di poter lavorare sia un pigro, e quindi non si meriti quel denaro pubblico
È stata questa confusione teorica e pratica che fece dire ai primi proponenti dell’attuale Rdc che con esso avrebbero “eliminato la povertà”: con un extra-reddito non si elimina la povertà, si rende solo possibile la sopravvivenza e si garantisce un minimo di dignità a chi deve mangiare senza recarsi ogni giorno, con i figli, nelle mense gratuite (dove e quando ci sono ogni giorno). Quella dichiarazione fu un errore culturale ed economico. Ma oggi di errori se ne stanno commettendo di più gravi, e da più punti di vista. Togliendo il Rdc a chi è “occupabile” e non lavora si pensa di compiere un atto di giustizia, e per questa ragione trova anche un certo consenso in alcune persone per bene. Dove sta l’errore? Nel pensare che chi non lavora essendo in condizioni oggettive di poter lavorare sia un pigro, e quindi non si meriti quel denaro pubblico – ecco tornare la parolina magica “merito”.
Dai dati però sappiamo che circa tre quarti degli occupabili ha la licenza media, e circa l’80% non ha lavorato negli ultimi tre anni. Quindi, tendenzialmente, sono disoccupati cronici. Tra questi ci sono molti che pur avendo un’età per poter lavorare non riescono a lavorare – per fragilità emotive e relazionali, per un “capitale umano” troppo impoverito – , e che per poterlo fare avrebbero bisogno non di un corso di formazione di qualche mese ma di anni di lavoro sui loro “capitali”, e mentre fanno questi corsi e sono accompagnati dovrebbero sopravvivere e vivere magari con dignità. Ma, si dice, ci sono anche quelli che preferiscono stare a casa e non lavorare. Certo, ma si dimentica che preferire il divano al lavoro è esattamente una forma concreta che assume la povertà di capitali delle persone; e il giorno in cui si capisce che quella non è una buona vita, la povertà è di fatto già superata. Quando una persona, soprattutto se adulta, non lavora da anni ha dei problemi seri “ in conto capitale”. È già una persona fragile, è qualcuno a cui la vita ha reso molto complicato il cammino. Ci vogliono “ istruzioni morali per l’uso”’ di queste persone, perché si rompono molto facilmente. E invece negli ultimi tempi sono sottoposti dalla politica a un tristissimo mercato politico, come merce di scambio, usati per prendere voti da una parte o dall’altra, senza che nessuno conosca i loro nomi.
E così ci dimentichiamo che far lavorare persone che non lavorano perché non stanno bene è un’operazione estremamente difficile. Il lavoro non è una merce omogenea, non è qualcosa di indistinto che va bene per tutti e ovunque. Questo è vero per tutti, ma è verissimo e cruciale per persone che hanno già molte difficoltà con la vita e quindi con il lavoro e con il suo mondo estraneo ed ostile, dal quale spesso si sono sentiti rifiutati, dove hanno fallito, dove sono stati umiliati, dove hanno perso auto-stima e dignità.
Il lavoro è un incontro di bisogni, è un intreccio di competenze, è uno sguardo reciproco di dignità. Se mi sento talmente poco qua-lificato e competente per offrire qualcosa agli altri, per superare questa mancanza antropologica – che andrebbe superata – c’è bisogno di molto lavoro di chi sta attorno a me. Non basta qualcuno che mi dia l’ultimatum: se non accetti questa offerta di lavoro ti tolgo i viveri. Questa non è dignità, questa non è cittadinanza, è solo un’ulteriore umiliazione di persone già spesso umiliate e ferite.
Duemila anni di cristianesimo ci hanno insegnato che valiamo e dobbiamo essere rispettati anche quando, per qualsiasi motivo, non siamo nelle condizioni di offrire qualcosa in cambio di un reddito
C’è poi un altro grave errore etico, pensare che il lavoro sia un mezzo per punire i fannulloni facendoli finalmente lavorare: qualcuno in passato lo ha anche pensato e teorizzato (negli Opifici e nei Riformatori), ma la democrazia ha superato la visione del lavoro come punizione, e lo ha legato alla dignità della persona e alla sua fioritura umana.
È vero, infine, e lo sappiamo tutti, che è la reciprocità la legge aurea della vita civile, che ricevere qualcosa dagli altri in cambio di qualcosa che io sto offrendo loro è la via maestra della nostra felicità. Ma non tutti si trovano nella condizione soggettiva di poter essere dentro questa reciprocità civile, e duemila anni di cristianesimo ci hanno insegnato che valiamo e dobbiamo essere rispettati anche quando, per qualsiasi motivo, non siamo nelle condizioni di offrire qualcosa in cambio di un reddito. E se, in nome di questa mancanza di reciprocità, mi togli anche il reddito, la mia partecipazione alla vita civile diventa talmente infima fino ad azzerarsi, e torno a essere un invisibile scarto umano.
In tutte le società i poveri sono umiliati dalla vita e dai più forti. E oggi la politica preferisce chiudere un occhio o tutti e due sull’evasione fiscale dei ricchi, ma diventa spietata con i più fragili, e poi per tranquillizzarsi la coscienza ci vuole convincere che i poveri sono colpevoli della loro povertà. È l’arcaica “cultura della colpa” che dopo Giobbe e duemila anni di cristianesimo sta tornando a dominare le nostre anime: «Cessate di fare il male, imparate a fare il bene, cercate la giustizia, soccorrete il povero» (Isaia 1,16-17).