Guizzo geniale? Mossa accuratamente preparata? E da chi? C’è chi dice che il Donald Trump abbia fatto davvero tutto da solo, prendendo in contropiede anche i suoi più stretti consiglieri. Chi sostiene che l’iniziativa sia stata concordata con Pechino e che facesse parte dell’accordo scaturito dall’incontro con Xi Jinping a Osaka, in occasione dell’appena concluso G20. Chi, infine, attribuisce la regia a Moon Jae-in, il presidente sudcoreano. Sarebbe stato lui a “sondare” Pyongyang e, una volta ricevuti segnali positivi, a organizzare con il presidente Usa la sceneggiata del “tweet del secolo”. Pechino non ne sapeva nulla e non l’avrebbe presa bene. A supporto di questa ultima tesi c’è il fatto che sui media cinesi la notizia viene data senza troppo entusiasmo, e che il portavoce del Ministero degli Esteri abbia atteso 12 ore prima di esprimere «soddisfazione». Conoscendo i media cinesi, se Pechino fosse stata coinvolta, la copertura sarebbe stata ben diversa. E invece ieri, il “Quotidiano del Popolo” e il “Global Times” (versione in inglese dell’organo del Partito comunista cinese) sono stati forse gli unici giornali al mondo a non avere, in prima pagina la foto di Kim e Trump che attraversano il 38° parallelo. Ci sarà un motivo.
Ma quale che sia la genesi dell’oramai storico cinguettio con il quale il presidente Trump ha invitato il leader nord coreano Kim Jong-un a scambiarsi una stretta di mano a Panmunjom, il “muro” orizzontale che divide da 65 anni il popolo coreano, sta di fatto che è riuscito a “sparigliare”. Da domenica scorsa niente sarà come prima ed è davvero possibile, se Kim andrà sul serio negli Stati Uniti, che Trump riesca laddove tutti i suoi predecessori hanno fallito, compreso Bill Clinton, che nel 2000 ci era arrivato molto vicino. A firmare la pace con la Corea del Nord. Che è poi quello che più preme a Kim. È oramai evidente che il negoziato sulla denuclearizzazione è passato in secondo piano: gli americani, o quanto meno Trump, non insistono più sullo smantellamento integrale, definitivo e verificabile dell’arsenale nucleare: del resto Kim ha fatto chiaramente capire che non commetterà l’errore di Gheddafi e di Saddam. Piuttosto si arriverà a una definitiva moratoria sui test balistici, in cambio di un progressivo allentamento delle sanzioni. È interesse di tutti – tranne forse proprio della Cina – che la Corea del Nord rientri nella “comunità internazionale”, che l’economia riprenda, che l’emergenza alimentare venga superata. La firma di un trattato di pace eliminerebbe ogni ostacolo formale alla ripresa delle relazioni anche commerciali con gli Stati Uniti (e con l’Europa) e creerebbe i presupposti per una riunificazione della Penisola attualmente impensabile e soprattutto insostenibile finanziariamente. Scenario questo che Pechino – e per motivi diversi anche Tokyo – non vedono di buon occhio. Pechino perché l’ipotesi di una Corea riunita, amica (se non alleata) degli Stati Uniti costringerebbe a rafforzare militarmente un altro fronte. Tokyo perché il Giappone perderebbe ulteriormente peso economico e soprattutto politico.
In attesa degli sviluppi “orientali”, sarà bene che anche l’Europa si “svegli” e prenda atto di questo “sparigliamento”. L’Europa ha sin qui seguito la politica americana e le varie risoluzioni Onu. Ma forse è ora che qualcuno si accorga che la situazione è cambiata, che Kim non rappresenta più una minaccia e che un presidente degli Stati Uniti decide di andare a trovarlo forse è bene che lo facciamo anche noi. L’Italia potrebbe avere un ruolo importante, magari mettendo efficacemente — e, dunque, con questo interlocutore discretamente – a tema anche la “dimenticata” questione dei diritti umani. Siamo il Paese europeo – e del G7 – che per primo ha riallacciato le relazioni diplomatiche con Pyongyang (governo Dini, nel 2000) e siamo anche tra i pochi a non aver partecipato direttamente alla guerra di Corea (ci limitammo a inviare medici e infermieri). Ma due anni fa, su “consiglio” degli Stati Uniti, abbiamo “espulso” (si fa per dire, perché nel frattempo era deceduto) il loro ambasciatore. Chissà se in mezzo a mille e certamente più importanti questioni qualcuno nel governo non prenda in considerazione l’idea di accreditare il nuovo. Magari con un tweet?