C’è una discreta miscela di realismo e cautela, nella frase pronunciata martedì scorso dalla ministra della Giustizia Marta Cartabia alla Camera, in occasione dell’approvazione in prima lettura della riforma del Consiglio superiore della magistratura e dell’ordinamento giudiziario. «Abbiamo proposto la riforma migliore possibile, ben consapevoli che tutto è perfettibile », ha detto la Guardasigilli. Non la riforma migliore, tanto meno la riforma perfetta.
Ma la «migliore possibile» nella condizione data, che (come sempre quando si ragiona di giustizia in Italia) è simile a un sentiero talmente stretto da essere costretti a infilare i passi uno dietro l’altro, a formare un’ideale fila indiana. Ai lati, da una parte i partiti che chiedono 'di più' – e per questo sono disposti a rischiare di far deragliare la legge a pochi metri dall’approvazione definitiva, prevista intorno al 20 maggio in Senato – dall’altra la magistratura associata, che ancora una volta vede in una riforma della 'sua' materia una minaccia inaccettabile all’autonomia e all’indipendenza garantite dalla Costituzione. Per questo l’Assemblea dell’Associazione nazionale magistrati ha indetto ieri una giornata di sciopero. «Non per protesta, ma per essere ascoltati », si legge nella mozione votata a larghissima maggioranza.
È un copione già visto e ripetuto, una decisione che fa dubitare fortemente del fatto che l’Anm sia davvero consapevole della forte crisi di credibilità e d’immagine in cui si dibatte da tempo l’ordine giudiziario. Che per una democrazia liberale (a quanto pare ne sono rimaste poche nel mondo) e per uno Stato di diritto non è un dettaglio, bensì un dramma. Un dramma segnalato chiaramente e più volte dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che per dettato costituzionale presiede anche il Csm, insieme alla necessità di condurre in porto questa riforma. La «migliore possibile», secondo la ministra. Forse perché è il prodotto della mediazione tra molteplici sensibilità differenti all’interno di una maggioranza di governo larghissima e su un tema che, da 30 anni, è un nervo scoperto per la politica italiana. O forse soltanto perché ha il pregio di essere arrivata almeno al punto in cui è, cioè in vista del traguardo.
Non basterebbe lo spazio in pagina, infatti, a voler ricordare tutte le riforme della giustizia rimaste impigliate negli anni negli scioperi o nelle proteste dell’Associazione magistrati, nei cassetti dell’ennesima commissione tecnica oppure di fatto 'evaporate' in fase di attuazione della relativa legge delega. A ciascun tentativo, a ragione o a torto, i vertici di turno dell’Anm hanno appiccicato un bollino: «sbagliato », «pericoloso», «intimidatorio», «rancoroso»...
Così anche stavolta. Ma 30 anni, appunto, sono trascorsi da Mani Pulite. E tante cose sono accadute, fino ad arrivare al cosiddetto 'caso Palamara', ovvero lo scoperchiamento di uno stato di cose consolidato e già noto. Non si può più fare finta di niente. Anche perché nel frattempo sono naufragati tutti i buoni propositi di «autoriforma» annunciati dal Csm e dalla stessa Associazione magistrati. La riforma Cartabia metterebbe fine all’incredibile pratica di candidarsi e farsi eleggere nello stesso territorio in cui fino al giorno prima si è guidata la procura della Repubblica, per poi tornare tranquillamente a fare il giudice o il pm; limiterebbe i passaggi di funzione; renderebbe possibile distinguere, in sede di valutazione, tra i magistrati che prediligono la notorietà o la flemma (pochi, ne siamo certi) e quelli che lavorano sodo. Sembra già tanto, rispetto al nulla fatto finora. Difficile, in tutta franchezza, scorgere pericoli per l’autonomia e l’indipendenza. Perciò lo sciopero rischia di apparire la mossa autolesionista di una magistratura che non riesce ad accettare di mettersi, serenamente e costruttivamente, in discussione.