Riconoscere e arricchire la famiglia profetica della terra
sabato 5 agosto 2017

Anche se ogni profeta ha la sua personalità unica e il suo nome proprio, la profezia è un’esperienza collettiva. Forma una comunità, una tradizione, e chi arriva continua la stessa corsa, combatte le stesse battaglie, dà nuove parole alla stessa voce. Ogni profeta vero è generato dai profeti che lo hanno preceduto e nutre i profeti che verranno dopo di lui. Questa catena generativa spirituale è la radice della fedeltà alla parola, perché ogni profeta sa che sta scrivendo un capitolo di un libro che verrà completato da altri/e, e se a quel capitolo mancano parole, o se ne contiene di parziali e di emendate, chi continuerà la scrittura si troverà tra le mani un materiale adulterato, non avrà a disposizione parole necessarie per scrivere le proprie, e il finale sarà più povero e sbagliato. La fedeltà dei profeti alla parola ci fa comprendere una verità di portata più universale, che riguarda ogni generazione e ogni parola. L’arte e la poesia di oggi si nutrono della fedeltà alla loro parola degli artisti e dei poeti di ieri, e se un poeta tradisce la sua parola impoverisce la poesia di domani. Quando un genitore smarrisce o tradisce la sua parola e quella che ha ereditato, i figli si trovano tra le mani parole più misere o false per scrivere la loro vita - dietro vite scritte male dai nostri figli si cela spesso il tradimento delle nostre parole di padri e madri. Le comunità si smarriscono quando nella trasmissione/tradizione qualcuno tradisce la prima parola carismatica. Gli attraversamenti dei deserti delle parole tradite non conducono a nessuna terra promessa, perché la mappa che conduce dall’Egitto a Canaan può essere scritta solo con segni e parole fedeli.

«Il Signore mi mostrò due canestri di fichi posti davanti al tempio del Signore, dopo che Nabucodònosor, re di Babilonia, aveva deportato da Gerusalemme Ieconia, figlio di Ioiakìm, re di Giuda, i capi di Giuda, gli artigiani e i fabbri e li aveva condotti a Babilonia. Un canestro era pieno di fichi molto buoni, come i fichi primaticci, mentre l’altro canestro era pieno di fichi cattivi, così cattivi che non si potevano mangiare» (Geremia 24, 1-2). Siamo di fronte ad una nuova visione di Geremia, di cui YHWH gli svela subito il significato: «Come si trattano con riguardo i fichi buoni, così io tratterò i deportati di Giuda(...). Darò loro un cuore per conoscermi. Come invece si trattano i fichi cattivi (…) così io tratterò Sedecìa, re di Giuda, i suoi capi e il resto di Gerusalemme, ossia i superstiti in questo paese» (24,5-8).

La teologia del "resto" è al centro della profezia biblica, perché dice la natura profonda dell’umanesimo biblico e della sua tipica salvezza. Il grande, il forte, il molto, sono le caratteristiche degli imperi, del faraone, degli eserciti, che sono luoghi dove Dio non c’è e dove l’uomo viene negato. Anche nella Bibbia, e persino nella tradizione profetica, troviamo un’anima che ha legato la salvezza alla forza e al "Signore degli eserciti"; ma insieme a questa ne troviamo un’altra, che non profetizzava un messia vittorioso che appariva all’orizzonte su un cavallo bianco, ma aspettava un servo sofferente, un emmanuel, un bambino in una mangiatoia. Senza i profeti veri, le comunità, anche quelle nate dai carismi spirituali più puri, si trasformano presto in imperi in cerca di conquiste, di adepti e di potere, e si dimenticano della verità povera del piccolo "resto". E si spengono.

Anche in Geremia ritroviamo la tradizione del "resto", ma la grandezza di questo profeta ce ne fa scoprire una dimensione veramente profonda e sovversiva: il "resto" non si trova tra coloro che sono rimasti in patria, scampati alla prima deportazione, ma tra gli esuli in Babilonia. Il cesto buono è il cesto rapito. Questa non è soltanto una lettura sapienziale delle vicende presenti e future di Gerusalemme e di Giuda, né solo una critica alla corruzione dei sacerdoti e dei profeti. Qui c’è anche un grande messaggio che riguarda la logica della salvezza delle comunità e delle persone.

L’osservatore che si trovava in quei giorni in Israele, che aveva visto una parte significativa del popolo deportata e esiliata, costretta a vivere in mezzo a una nazione tiranna e idolatra, senza tempio, senza profeti e sacerdoti, anche se avesse creduto alla profezia del "resto" lo avrebbe collocato nella parte del popolo che era rimasta, perché poteva ancora pregare nel tempio, celebrare lo shabbat, e perché aveva le sue guide spirituali e religiose. Geremia, invece, dice che il "resto" che si salverà e continuerà l’Alleanza, si trova ora tra i deportati, circondato dalle processioni di dèi stranieri altissimi e luccicanti, senza l’apparato religioso e i custodi di YHWH. La salvezza verrà non da chi è rimasto dentro la religione e il tempio, ma da chi è stato condotto fuori e lontano, in una terra idolatrica.

Quante volte è accaduto, e continua ad accadere, che qualcuno parte, lascia, viene portato via con violenza da qualcun altro o da qualcosa di più forte, e chi resta legge tutto ciò come sventura. E poi nell’esilio inizia una salvezza, che un giorno tornerà come una benedizione. Qualcuno lascia una comunità, una casa, un istituto; chi resta vede questa partenza come maledizione, e il proprio restare come benedizione. Poi la storia continua, e dentro la maledizione fiorisce uno splendido fiore del male. Chi nel tempo di Geremia era rimasto, protetto dall’ideologia dei falsi profeti e dai sacerdoti del tempio, non sapeva che in una lontana periferia, sotto la terra del dolore, stava maturando qualcosa di nuovo, di fedele e di vero, che un giorno avrebbe salvato tutti i figli. Qualche volta, una parte del nostro cuore parte, ci lascia, viene portata via di casa, e la parte che resta grida l’abbandono. Ma può accadere che proprio ciò che era fuggito in una terra straniera inizi a generare una misteriosa salvezza; torna e salva quanto era rimasto a casa e si era nel frattempo corrotto, ingannato da ideologie e da falsi profeti. Ci sono regni dove in un porcile può iniziare il banchetto del vitello grasso, dove le ghiande fioriscono in granello di senape. Le fedeltà più vere sono quelle improbabili. Quelle troppo lineari e ovvie producono spesso i sentimenti e le parole del fratello maggiore rimasto "fedele" nella casa del padre.

Ma se leggiamo questi versi di Geremia dentro l’intera tradizione biblica, possiamo fare altre scoperte. Ripercorriamo la Torah, e al termine della Genesi incontriamo un amico di Geremia: Giuseppe. Anche lui, un fratello deportato e schiavo, senza famiglia e padre, con fratelli corrotti e traditori, diventa in quella lontana terra del faraone un "resto" di salvezza per tutti. La salvezza non stava nella terra del padre Giacobbe e tra gli altari del loro Dio. Era lontana, in mezzo alle piramidi, nelle carceri imperiali, nella solitudine, fioriva dentro un sogno.

Ma a Geremia non basta narrare la parabola dei due cesti. Pochi versi dopo profetizza ancora la distruzione della città e del tempio: «Così dice il Signore: (…) Io ridurrò questo tempio come quello di Silo» (26,5). Le prevedibili conseguenze di questa profezia non si fanno attendere: «I sacerdoti, i profeti e tutto il popolo udirono Geremia che diceva queste parole nel tempio del Signore. (…) Lo arrestarono dicendo: "Devi morire! Perché hai predetto nel nome del Signore: ’Questo tempio diventerà come Silo e questa città sarà devastata, disabitata’"». (26,7-9). Ma, questa volta, la condanna a morte non fu eseguita, perché "alcuni anziani del paese", presero la parola nell’assemblea e dissero: «Michea di Morèset, che profetizzava al tempo di Ezechia, re di Giuda, affermò a tutto il popolo di Giuda: "Sion sarà arata come un campo e Gerusalemme diventerà un cumulo di rovine, il monte del tempio un’altura boscosa!". Forse Ezechia, re di Giuda, e tutti quelli di Giuda lo uccisero? … Noi, invece, stiamo per commettere una grave iniquità a nostro danno». (26,18-19).

In questo episodio, narratoci da Baruk, sono nascoste alcune perle. Nel popolo c’erano ancora alcuni anziani rimasti fedeli alla tradizione dell’Alleanza, e capaci di ascoltare e credere ai profeti. I veri nemici di Geremia e dei profeti erano i capi, i falsi profeti e i sacerdoti. Si ripete ancora l’antica e costante tensione-conflitto tra carisma e istituzione, e tra periferia e centro dell’impero (né Geremia né Michea erano di Gerusalemme). Questi anziani, poi, salvano Geremia citando un profeta precedente (Michea). Qui abbiamo una rara e splendida testimonianza che ci svela una legge generale e fondamentale della Bibbia: I profeti veri si richiamano l’un l’altro, si salvano vicendevolmente anche quando chi salva ha vissuto cento anni prima. E il salvato fa rivivere il salvatore.

Il capitolo si chiude con un racconto che ci giunge dalla bocca di uno di quegli anziani giusti: «C’era anche un altro uomo che profetizzava nel nome del Signore, Uria… Egli profetizzò contro questa città e contro questo paese con parole simili a quelle di Geremia. Il re Ioiakìm … cercò di ucciderlo, ma Uria fuggì, andandosene in Egitto. Allora il re Ioiakìm inviò degli uomini in Egitto, e lo fece uccidere di spada» (26,20-23).

I profeti veri in Israele erano più di quelli di cui la Bibbia ha conservato le parole. La parola di YHWH è più abbondante delle parole della Bibbia, e la Bibbia è più grande della somma delle parole che contiene. Uria è immagine dei molti fratelli muti dei profeti, che, ieri e oggi, non scrivono libri e che, forse, attendono un "anziano del paese" che li veda, faccia parlare la loro vita e il loro sangue, arricchendo la famiglia profetica della terra.

l.bruni@lumsa.it

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