Gentile direttore, le scrivo per offrirle un mio racconto, intitolato: "Principe degli altopiani". È frutto dell’agosto 2013 ed è ispirato al primo verso delle "Metamorfosi" di Ovidio: «A narrare il mutare delle forme in corpi nuovi mi spinge l’estro». La saluto cordialmente.«Nell’afa di una breve vacanza, che interrompe per un attimo l’ansia del resto dell’anno, mi vieni incontro ogni cinque minuti, in silenzio, e ti fermi vicino al mio ombrellone, ogni volta con un viso e con oggetti diversi, rivolgendomi la tua offerta muta. Ti respingo centinaia di volte dicendoti "no" o facendoti un gesto di diniego con la mano, talvolta proferendo una scusa, sì che l’anima, che vorrei ricreare, mi si incancrenisce invece per il rifiuto e la menzogna. L’ingiustizia cosmica aleggia attorno al mio riposo, ed anche se chiudo gli occhi continuo a sentire il tuo fruscio e il tuo odore: tu che eri principe degli altopiani nel tuo paese hai rischiato la vita attraversando il deserto e le onde per venire a fare il servo a bagnanti distratti e indifferenti in un luogo di sabbia e di mare. Mi sento circondato e quasi rinchiuso in un fortino privo di barriere: la voce del venditore di cocco, che mi risveglia bruscamente dal torpore, pone un’effimera tregua alla tensione costante, quasi fosse la voce dell’ufficiale che sancisce la fine di un turno di guardia.Il dio beffardo del mio paese ha sostituito le lance che brandivi con degli ombrelli, i tuoi scudi con dei pannelli pieni di monili, i tuoi mantelli con dei parei. Nella tua terra i tuoi sudditi ti riverivano, qui chiami me "capo". Ma il dio sconosciuto del tuo paese ti ha reso forte e potente: io ho un telo da bagno, tu ne hai dieci; io ho un paio di occhiali, tu ne trasporti cento, io ho un cappello, tu ne tieni in testa una serie innumerevole. Io sono uomo, tu sei uomo e donna, io sono uno, tu sei mille, ed in ogni momento avverti me ed i miei simili della tua presenza. Il tuo dio non può tollerare l’offesa che il mio gli ha rivolto, e prepara vendetta. Lo presagisco e ne ho timore: la mia sola, vana difesa è respingerti con i miei impauriti rifiuti».Amos Bertolacci, Scuola Normale Superiore di Pisa
Ho appena smesso di sfogliare i giornali, spento la radio e dato uno sguardo alla tv che balugina in un angolo del mio ufficio. E mentre leggo, gentile professore, il suo breve, denso e dolceamaro racconto ho in testa gli echi roventi e disorientanti di questo nostro tempo italiano e la fatica rabbiosa di un mondo tentato dalla guerra, ma anche il sollievo fresco e sorprendente dei mille piccoli e grandi gesti di bene che contraddicono l’indifferenza, l’egoismo e la vacuità. Non mi è difficile, perciò, immaginare le fattezze del suo pagano «dio beffardo». E non faccio fatica a intendere perché lei lo tratteggia come il "signore degli impauriti rifiuti". Ma è Uno il Dio trinitario che da cristiano ho imparato a conoscere e a riconoscere in ogni volto d’uomo e di donna, anche e soprattutto – oggi – in coloro che continuano la sabbia dei deserti sulle rive del nostro mare. E so che noi tutti, vivendo, continuiamo a imparare che Dio è Uno per amore (mi creda: se ascoltiamo davvero, davvero succede, persino sulle spiagge d’estate). Vorrei, semplicemente, riuscire a dirle che lo Sconosciuto che anch’io oso pensare di conoscere abita pienamente il tempo che abbiamo e quello che avremo, e che la sua logica capovolge le logiche e i mercati del mondo. Io so che Lui è il «Dio ignoto» che l’apostolo Paolo annunciò nel cuore civile di Atene e che ogni giorno uomini e donne senza armi portano come Parola divina e gesto d’umanità. Io so che Lui è il Cristo, il principe dell’altopiano verso cui tutti siamo incamminati e che si chiama "pace". So che su vie scomode e affascinanti ci conduce all’incontro fraterno. E so che questo c’entra (e non per astratto buonismo, ma per fede e per speranza, per alto senso di giustizia e per concreta idea giusta del mondo) con le strade e le piazze e gli arenili d’ogni dove e, dunque, anche d’Italia e con coloro che li attraversano e li abitano. Lei, gentile professor Bertolacci, racconta in modo splendido di un presente immiserito da distanze e prossimità amare e di una guerra di divinità gelose e antiche, eppure io penso che questo suo racconto d’agosto, affilato e utile come una lama, sia il passato. Noi siamo oltre, scomodamente e meravigliosamente oltre. Diciamo di crederlo e ci industriamo in molti modi per smentirlo, dobbiamo solo deciderci a capirlo e a viverlo questo domani che è già oggi e sempre.La ringrazio per il suo regalo, e ricambio di cuore il suo saluto.