Caro direttore,
trovo il risultato delle recenti elezioni europee francamente deprimente per le prospettive che mostra riguardo alla società italiana e al mondo cattolico in particolare. Pur con tutto il rispetto per le scelte espresse dai miei connazionali, e dai miei fratelli che hanno il diritto di esprimere la loro fede cattolica anche in un modo che non condivido. Ma il motivo di ancor maggiore sconforto che provo sta nelle paradossali reazioni di chi, palesemente, non solo non ha vinto ma ha perso o straperso. Ritengo che vincere significhi arrivare primo in una competizione o, perlomeno, ottenere un risultato molto al disopra delle aspettative. Ovviamente perdere significa non arrivare primi, o stare al disotto dei risultati preventivati. Straperdere lo definirei come non raggiungere nemmeno il risultato minimo: in queste elezioni, per esempio, portare almeno un rappresentante al Parlamento europeo. O, per chi ne aveva già, confermare i seggi precedenti. Ora: considerati i dati elettorali, come è possibile continuare a illudersi che tutto vada bene, che non sia andata così male, che "abbiamo vinto!", che "ci siamo, ora l’alternativa c’è!" , che si è ago della bilancia e via blaterando... Fin che si continuerà a credere in questa realtà virtuale non si prenderà mai atto della realtà vera, e sarà impossibile fare programmi reali di cambiamento e riorganizzazione per le future elezioni. E temo che sarà così fino a che gli attuali dirigenti dei partiti perdenti (nessuno escluso) non si ritireranno per raggiunti limiti d’età, grave invalidità o decesso. Dopo, forse, se ne potrà riparlare. Questa riflessione l’ho appena condivisa con il responsabile del partito che ho votato, che non ha raggiunto lo 0,4% nazionale, e ha commentato, tutto sommato soddisfatto, che non è andata così male: «In Molise quasi ce l’avevamo fatta», ma, soprattutto, «a livello comunale siamo presenti, abbiamo fatto buoni risultati». Direttore: va bene cercare sempre il lato positivo, va bene pensare al futuro, ma senza realismo e autocritica dove vogliono mai arrivare? Se l’obiettivo non è vincere, almeno nei termini di cui sopra, che si partecipa a fare? Su questo, e mi duole ammetterlo, concordo con Renzi: «Se son contenti di arrivare secondi...». Che poi mica tutti son arrivati secondi: il mio partito non avrebbe portato un eletto neppure ai Consigli regionali con queste percentuali. Ho suggerito al responsabile di pensarci un po’ su, e di farmi sapere che ne pensa; così che al prossimo giro io sappia se provare a rivotarli o cercare qualcun altro. E ho concluso, con ulteriore tristezza: ammesso che ci sia qualcuno di meglio... In coda anche un messaggio a Matteo Salvini: aggiungendomi alla lettrice di qualche settimana fa, ci tengo a fargli sapere che a sostenere le sue scelte politiche ci sono 60 milioni di italiani, meno due. Un cordiale saluto
Marco Montanari
Parto dal fondo. In un Paese dove il 44% degli elettori non è andato alle urne nessuno di coloro che sono stati votati, neppure il politico oggi più di successo, può pensare di parlare a nome di 60 milioni di cittadini (cifra che per di più, come dovrebbe essere noto, comprende anche gli stranieri residenti). Infatti, anche Matteo Salvini ha cambiato lessico e concetti. Poco più di un anno fa, dopo esser diventato uno dei due "consoli" del governo-gialloverde grazie al 17% ottenuto alle elezioni politiche, si concedeva affermazioni di quel tenore, quasi da "protettore degli italiani". Oggi che la Lega è arrivata prima gli basta dire, come ha fatto, che gode del consenso di «un terzo degli italiani» (ovviamente un terzo dei votanti , quei 56 su cento che si son fatti valere nelle urne del 26 maggio).
Sul resto delle sue considerazioni, caro amico, concordo largamente. Anch’io cerco sempre di vedere il bicchiere mezzo pieno piuttosto che mezzo vuoto, ma non si può far finta di non vedere fatti e dati per quello che sono. Ho scritto più volte – anche rispondendo a chi vorrebbe poter votare una formazione ispirata il più coerentemente possibile alla Dottrina sociale cristiana o, almeno, a essa intelligentemente vicina – che a mio avviso c’è una premessa essenziale alla possibilità di una sensata ricostruzione del panorama politico italiano. Che oggi non soddisfa né lei né me né tanti altri concittadini, soprattutto perché appare dominato da partiti che sono espressione di radicalismi concorrenti eppure tristemente accomunati dall’assenza di salde idee-guida all’insegna di quell’«umanesimo integrale» che è caro a tanti di noi, cattolici praticanti e no. Giudizio troppo severo? Mi sforzo di esser chiaro e di non essere mai troppo severo con nessuno (e per questo, ogni tanto vengo legittimamente, anche se non sempre elegantemente, criticato), ma tento pure di non essere ingenuo.
Spinto da lei, torno dunque sulla doppia premessa che reputo necessaria per avviare una equilibrata ricostruzione della nostra politica. La prima è valoriale, l’ho appena richiamata e non insisto troppo, anche perché ne scrive oggi, da par suo, in prima pagina il professor Campanini. Ripeto solo ciò che dico e scrivo ormai da parecchi anni: servono valori tutti interi (non sminuzzati, tentando di separare vita e famiglia da solidarietà e giustizia sociale e viceversa), perché senza grandi riferimenti ideali prendono campo solo interessi inesorabilmente piccoli. La seconda premessa la condenso in questa immagine: bisogna sgomberare la scena dalle macerie e dagli alibi accumulati nel cosiddetto "campo moderato" da leader senza carisma e senza visione e da pretesi satrapi senza forze. E questo non si fa senza un impegno nuovo e diverso dei cattolici. Un’azione che non prevede l’uso del piccone e della mazza, se non per tirar giù muri e aprire strade. La "moderazione" è infatti uno stile, non la rinuncia a proposte forti. Concordo, infine, con lei che una imbarazzante sottocategoria della letteralmente poco eletta schiera di cui qui sopra sono proprio quelli che dicono "abbiamo vinto comunque" e continuano a non fare i conti con la realtà con tutta la necessaria onestà. Onestà che è anche personale pulizia, ma che è certamente rispetto della realtà su cui si intende incidere. Onestà che – al pari di competenza, decisione e gentilezza – è virtù dei veri grandi, anche in politica.