Quei segnali inviati da Putin al vertice di Lucerna
domenica 16 giugno 2024

Chi si ricorda della diga di Kachovka, distrutta il 6 giugno dell’anno scorso? Fu fatta saltare e le acque dell’enorme bacino artificiale (il sesto d’Europa) sommersero 80 tra città e villaggi nell’area di Kherson lungo il fiume Dnepr. Un disastro ambientale oltre che un ingentissimo danno economico. Le autorità ucraine chiedono che sia perseguito come “ecocidio” dalla Corte penale internazionale. Sarebbe un crimine inedito commesso dalle truppe d’invasione russe, destinato a sommarsi agli altri su cui già si indaga e per i quali il presidente Vladimir Putin è inseguito da un mandato di cattura internazionale. Si tratta di una zona che lo stesso capo del Cremlino oggi reclama come propria – insieme alle devastazioni che vi ha provocato - e il riconoscimento della cui annessione pone, tra le altre, come condizione per il cessate il fuoco e l’inizio di negoziati. Anche la minaccia di usare un’arma nucleare tattica sul fronte dei combattimenti in risposta a un’escalation della resistenza sostenuta da America ed Europa va in questa direzione.

L’atomica finirebbe con il colpire il territorio della Nuova Russia che il Cremlino intende vedere riconosciuta a livello internazionale con il ritiro completo delle truppe di Kiev dalle quattro regioni già in parte occupate: Kherson, appunto, Zaporizhzhia e le due contese del Donbass, Donetsk e Lugansk, oltre alla Crimea. Se da una parte Putin non si fa scrupoli nell’azione militare e nell’alzare la tensione, dall’altra il segnale lanciato in concomitanza con il G7 a presidenza italiana e l’avvio in Svizzera della “Conferenza di alto livello sulla pace in Ucraina” non va sottovalutato. Dal primo consesso (allora G8) Mosca è stata sospesa nel 2014, all’odierno evento con quasi 100 Paesi impegnati a discutere su una soluzione diplomatica al conflitto ha scelto di non essere presente. Non poteva quindi mancare pubblicamente la voce del principale attore della crisi.

Se Zelensky ha portato al tavolo di Borgo Egnazia (e lo riproporrà sul Bürgenstock) il suo piano che ruota intorno a sovranità e integrità territoriale, principi ribaditi all’unanimità dai Grandi riuniti, la Russia insiste sulla rinuncia alla Nato, la “denazificazione” del Paese e la riduzione delle Forze armate, come nelle bozze di intese che erano state scambiate tra le parti nelle prime settimane dopo l’inizio della guerra, nel marzo-aprile 2022. Si tratta di un assetto che risulta palesemente inaccettabile e lascia le parti distanti come lo erano ieri. Dai colloqui in terra elvetica non sono da attendersi grandi passi in avanti, data l’assenza della Cina, anche se qualche big del Sud globale, a cominciare dall’India e dall’Arabia Saudita, potrebbe cercare di prendere l’iniziativa politica per riavvicinare posizioni attualmente lontanissime.

È lecito, tuttavia, leggere dietro la dettagliata proposta di Putin, irritualmente non inviata all’Ucraina ma annunciata parlando a funzionari del ministero degli Esteri, qualche nuovo segnale? Non risulta mai facile decifrare la sfinge del Cremlino. Sembra però plausibile che la finestra temporale di una guerra con inerzia decisamente favorevole a Mosca si stia già chiudendo con l’arrivo dei nuovi armamenti Nato e il via libera a usarli sul suolo russo per contrastare gli attacchi sulle città. Inoltre, la decisione infine presa di utilizzare gli interessi sui beni russi sequestrati all’estero per finanziare ingenti prestiti all’Ucraina, la ripresa di attenzione al conflitto con un summit in sostanza tutto pro-Kiev e altri minimi scricchiolii interni dovuti alle sanzioni (come la scarsità di dollari e il bilancio negativo di Gazprom), potrebbero indurre Putin a tentare la carta della divisione del fronte occidentale per uscire da una “operazione speciale” che non può perdere, eppure sa anche di non riuscire a vincere in tempi brevi.

La “stanchezza” che da tempo si manifesta in alcune nazioni e opinioni pubbliche (il voto per l’Europarlamento ne è in parte un riflesso) costituisce lo strumento per forzare in questa direzione. Nulla che Zelensky e il suo popolo siano disposti a prendere in considerazione, ma che senza sostegni esterni sarebbero obbligati a subire. Se non si deve cedere alle sirene di un compromesso sulla pelle degli ucraini, ha senso tentare di riaprire un canale con il Cremlino orientato a portare il dialogo sui binari di una pace giusta che lo Zar oggi non vuole? La risposta è di necessità positiva, altrimenti diventerebbe del tutto inutile avviare la Conferenza sulla pace.

Il nodo, come sempre, è trovare il modo di mettere in campo una strategia convincente. Mosca chiede anche la revoca delle misure economiche che la penalizzano. Se si riuscisse a stringere l’isolamento dell’aggressore in modo più efficace – riducendo davvero il suo export energetico, per esempio -, allora le concessioni da fare nelle trattative diventerebbero il ripristino dell’agibilità internazionale della Russia, compresa la libertà di movimento di Putin, in cambio della sovranità e della integrità territoriale dell’Ucraina (con complesse fasi transitorie per almeno alcuni territori). Facile a dirsi, quasi impossibile per ora a farsi, ovvio. Ma spingere anche su questo terreno – con ulteriori sforzi di immaginazione strategica - resta un imperativo, se si vuole raggiungere una pace che non sia occupazione o distruzione.

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