Una profuga nella baraccopoli in Bangladesh dove vive con un milione di Rohingya
Più che la furia dell’acqua, è la violenza del vento. Non taglia il volto ma prende alla testa, la confonde e la urtica come un energumeno che non abbia altro interesse che sollevarti da terra e sbatterti contro un muro. Lo sanno bene tutti gli uomini in motocicletta e k-way che si affrettano a prendere l’ultima chiatta che li separa dalla terraferma della città di Kulna per raggiungere i villaggi dell’area di Bagerhat. La piena dell’estuario di Kanga monta ogni minuto e, se non si fa in tempo, non sarà possibile tornare a casa anche per due giorni. Sempre che, tornando, la si possa ritrovare. Perché qui in Bangladesh, perdere tutto è il comune denominatore per milioni di persone che, finalmente, hanno acquisito lo status di “rifugiato climatico”, anche se i loro diritti sono per ora riconosciuti solo a parole.
Nasreen Begum ha perso la casa più e più volte. Dunque, non si stupisce ma prega e porta pazienza, misurando l’altezza dell’acqua davanti al cortile della sua palafitta nel villaggio di Paschim Baharbunia dell’upazila (municipalità) di Morrelgnaj, sperando che la prossima non sia peggio della precedente. «Finora è andata bene, qui; ma abbiamo visto che in pochi anni in Bangladesh zone più asciutte sono state travolte dall’acqua. Siamo preparati ma sappiamo che potremmo perdere tutto». Il suo sorriso non sminuisce la gravità della situazione: basta guardarle le mani per capire come siano state invecchiate da una vita a mollo, e non solo nelle bacinelle dei panni. Mentre si dedica alla sua macchina per cucire non riusciamo a distinguere sulle sue mani le rughe dell’età dalle pieghe lasciate sui suoi polpastrelli e lungo i dorsi dall’umidità. «Questa è la nostra ultima casa ma ci siamo trasferiti cinque volte in cinque case diverse da quando ci siamo sposati», spiega Nasreen, presentando il marito, un uomo che pare più vecchio di lei e le ronza intorno con fare premuroso e che, per poco, non è finito a ingrossare le file dei lavoratori dell’edilizia, schiavi che, per poche rupie al giorno, cuciono mattoni o innalzano cilindri di cemento, nella capitale Dakha o nelle grandi metropoli del Golfo: Dubai, Kuwait City, Jedda.
«Siamo vissuti felicemente fino al 2005 in un’altra zona – racconta – ma l’erosione delle rive è diventata eccessiva e frequente e ci toglieva pezzi di terra a poco a poco. Così ci siamo spostati più lontani dalla riva. E abbiamo costruito la nostra casa lì. Ma nel 2008 il ciclone Sydr ha spazzato via tutto. Abbiamo cercato di ripararci a casa di parenti per tre mesi, prima di ritornare. Abbiamo riparato la casa. Ma poi è andata pure peggio». All’epoca, Nasreen Begum e la sua famiglia sono rimasti per un mese appollaiati sul letto facendo tutto – ma letteralmente tutto – lassù: «Non voglio ritrovarmi mai più in una condizione simile. Ma almeno ho fatto studiare i miei figli al college e mi sto impegnando nei Consigli femminili dei villaggi qui intorno: facciamo una buona attività di advocacy per chiedere alle municipalità di assisterci per predisporre dei piani di evacuazione, monitorare la qualità dell’acqua e l’inquinamento delle aree sottoposte ad allagamenti ». La figliola di Nasreen è appena tornata dalla scuola superiore. Cammina sulle punte sopra i cordoli di terra più asciutti. Sembra una ballerina ma sta solo schivando un destino incerto. L’indomani nessuno andrà a scuola: c’è allerta nazionale. Nasereen per questo motivo non andrà nemmeno alla riunione del Consiglio, dove già manca la luce e le sue colleghe che vivono nelle case più vicine a Bagerhat si arrangiano a discutere senza elettricità, illuminando la sala solo con la torcia dei telefonini.
Sumaya, la più giovane di tutte – un profilo perfetto incorniciato dall’hijab marrone – è particolarmente arrabbiata e lamenta che i villaggi non abbiano alcun sistema fognario: «È inaudito ed è pericoloso per la nostra salute, e per la salute dei nostri bambini e anche degli animali». Poi si quieta, mentre suona la sirena e, con fretta composta, prevale il fuggi fuggi generale delle donne verso le case. Questo è un ciclone visto da molto vicino e in Bangladesh gli danno un nome evocativo per umanizzarlo meglio. L’ultimo lo hanno chiamato Mocha, come la città yemenita sulla costa Ovest una volta nota per lo stoccaggio di caffè, oggi il peggiore avamposto minato di una guerra che dura da otto anni.
Come quella guerra, questo ciclone non è stato gentile: ha colpito il Myammar e il Sud del Bangladesh, si è manifestato con venti a 120 chilometri orari, ha causato l’evacuazione di 750mila persone e danneggiato in modo irreversibile circa 500 baracche dei 34 campi di Cox’s Bazar, che ospitano circa un milione di rifugiati di etnia Rohingya, il popolo vittima di una persecuzione su base etnico-religiosa compiuta dal governo del Myammar nel 2017: un eccidio di inaudita violenza, denunciato a livello internazionale ma per il quale nessuno ha mai pagato. In questa città sul mare, sulla costa Sud del Bangladesh, le coppie di neo-sposi vengono a trascorrere la luna di miele: ma oltre alla spiaggia morbida, ai granchi appesi in bella mostra al mercato del pesce, agli alberghi a schiera per tutte le tasche e al traffico proverbiale di tuk-tuk e risciò, c’è la zona che la borghesia bangladese considera off-limits: Kutupalong, la città dei rifugiati. Questo milione di persone brulica qui da cinque anni e ha letteralmente ricoperto le colline di lamiere e bambù: si direbbe una baraccopoli a terrazzamenti che, quando il ciclone picchia, ne fa saltare le fragili strutture a zone alterne. Certo, questo è paradiso rispetto a quanto questa povera gente ha vissuto nel 2017. Samira, 30 anni, il volto rotondo e placido, è riuscita a salvaguardare il suo orto abbarbicato sul suo terrazzamento nel campo numero 13. Sono poche piante di zucchine e melanzane piantate dalla organizzazione svizzera Helvetas che ha implementato qui il progetto “Shine”: dare un po’ di bellezza sostenibile a questi sopravvissuti, piantando semi di ortaggi che facciano anche bei fiori. Queste piante sembrano tutto per lei che ha visto troppo: «Ho saputo che i militari birmani hanno dato fuoco alla mia casa dopo la fuga. Avevo già visto diverse mie parenti prese dai soldati, violentate e bruciate».
Poco lontano dalla sua baracca, la più giovane Nashgool non vuole nemmeno parlare di ciò che ha vissuto e il fratello vigila sulle dichiarazioni che fa: Nashgool è vedova e, senza il fratello intorno, in mezzo al suo orto, sembra senza pensieri e a suo agio. Dentro la baracca, scura e spoglia, il fratello le fa mettere il burqa e il suo umore diventa più scuro: «Qui stiamo bene – dice – ma non ho ancora trovato un altro marito». Il campo 13 è stato colpito pesantemente dal ciclone Mocha: una delle torri per l’acqua impiantate da Unhcr, dette “elefante” a causa della loro altezza, è caduta. I bambini continuano a giocare nel fango e a riparar lamiere. La polizia bangladese irrompe spesso per verificare che non ci siano risse o episodi poco piacevoli ma non è tenera con i Rohingya. Questi rifugiati, dopo cinque anni, devono ancora conquistarsi il favore delle comunità locali, essendo percepiti come estranei: diversi nella lingua, nella storia, spesso nella religione o tipologia di Islam, nel modo di vestirsi. Per questo il governo del Bangladesh ha offerto loro la deportazione sull’isola di Bashan Char ma finora hanno aderito solo in diecimila. «Noi non ci andremo – dice Mohammad, oggi 17 anni, ospite dello stesso campo ma frequentemente nella struttura meno affollata del Campo 4 Extention per seguire un corso di elettricità ed elettrotecnica –. Ormai ho imparato un mestiere e voglio integrarmi qui. L’ho promesso a mio padre».
Mohammad ha un corpo da bambino e lo sguardo duro, da adulto che ha visto troppe cose. Le tira fuori dal cassetto della memoria, ben chiuso per non piangere quelle lacrime che si sono cristallizzate cinque anni fa: «Quando sono arrivato qui avevo dieci anni. Sono arrivato in Bangladesh dal Myanmar di notte, nel buio pesto, su una barca. Ho visto persone annegare davanti ai miei occhi, e ho visto molte altre cose orrende che ricordo perfettamente e che sono ancora un trauma dentro di me: uomini decapitati, donne della mia famiglia violentate e arse vive. Siamo sopravvissuti in pochi nel tentativo di superare i confini. Certo, adesso sono qui: vivo con alcuni membri della mia famiglia. Ma la mia vita non sarà mai la stessa, la stessa che ho avuto in Myanmar». Per chiudere quel capitolo nel buio fondo del passato, Mohammad ha deciso di catturare il sole: costruisce circuiti e monta pannelli solari sulle baracche. Mentre si arrampica veloce su per le lamiere scoscese della sua povera casa per attivare i pannelli e rendere possibile la magia dell’elettricità a buon mercato, il padre lo guarda benedicente. Sorride, anche lui apparentemente dimentico dell’orrore lasciato nella terra vicina. Dice: «Guarda: lui è il nostro futuro».