Per favore ascoltiamo il padre di Ramy
martedì 14 gennaio 2025

Già l’incipit dice molto. Perché l’ha chiesto «per favore». E non l’ha chiesto per sé o per la sua famiglia in lutto, ma in nome del figlio Ramy, morto all’alba del 24 novembre a Milano, dopo un lungo inseguimento con i Carabinieri e in circostanze ancora da accertare dalla magistratura. Con un appello articolato e rivolto a tutti quei manifestanti scesi in piazza negli ultimi giorni, Yehia Elgaml, 61 anni, cittadino egiziano che vive in Italia da quasi vent’anni, ha lanciato una serie di messaggi impeccabili. In primis, con la voce rotta dal dolore più crudele che possa capitare a un genitore, quest’uomo ha invitato tutti coloro che scelgono di onorare la memoria di suo figlio a farlo in modo pacifico e costruttivo. A farlo senza odio: «Chi manifesta per chiedere giustizia e verità per Ramy non deve fare cose brutte. No a violenze e vendette». Ma Elgaml non si è limitato a prendere le distanze dagli autori degli scontri avvenuti in varie città italiane, è andato oltre. Parole semplici ma profonde che rivelano saggezza, senso di responsabilità e rispetto delle istituzioni. Parole che fanno bene: «Credo nella giustizia italiana. Vivo qui e mi piace questo Paese. E ho fiducia in Sergio Mattarella, che è Presidente di tutti noi, sia italiani sia immigrati». Tra i passaggi più equilibrati, per un padre che ha appena perso un figlio, c’è proprio quello sull’operato delle forze dell’ordine: «C’è anche qualche carabiniere che sbaglia, ma gli altri, tanti altri, sono bravi e io ho fiducia in loro. Così come non si deve fare casino contro i poliziotti, che lavorano per garantire la sicurezza di tutti noi». Le frasi di Elgaml devono rappresentare un’occasione da non sprecare.
Del resto, il clima incandescente che si respira e gli atti di violenza contro le forze dell’ordine sono spie preoccupanti per la tenuta della democrazia. E rischiano di ledere l’importanza cruciale del lavoro quotidiano portato avanti da Carabinieri e Polizia di Stato per l’ordine pubblico. Mai come in questo momento alzare la tensione è da irresponsabili. Le parole sono strumenti da maneggiare con estrema cura: non vanno usate per aizzare le folle né per esacerbare gli animi, ma al contrario devono servire per gettare acqua sul fuoco. In questo senso, il padre di Ramy che chiede «giustizia e non vendetta», «unità e non distruzione» assomiglia a un pompiere che prova a spegnere un incendio. Solo che avrebbe bisogno di rinforzi per domare le fiamme. Soprattutto dalla politica. E invece sui disordini e sugli atti vandalici è subito montata una polemica, tra partiti di governo e di opposizione, buona solo per sterili se non dannose strumentalizzazioni.
La condanna alla violenza è stata unanime, certo, ma purtroppo con sfumature diverse e che lasciano tutto il margine di manovra per piegare gli scontri ad uso dei rispettivi tornaconti propagandistici. Gli scambi di accuse tra chi “non difenderebbe abbastanza le forze dell’ordine” e chi “sotto sotto sfrutta le azioni di antagonisti e violenti per conquistare consensi” non contribuiscono di certo a risolvere i conflitti. Anzi, la “politicizzazione” della vicenda Ramy produce l’effetto di alimentare le divisioni di un Paese già fortemente disgregato. In questa come del resto in ogni fase delicata e di tensione sociale, il pericolo da scongiurare è proprio quello che si scateni uno “scontro di civiltà” domestico, un “noi contro di loro” che un’Italia immersa nel contesto di fibrillazione globale e fiaccata dalle tante diseguaglianze interne non può davvero permettersi. Violenze contro gli agenti che assicurano l’ordine pubblico, bombe carta, insulti e atti vandalici sono inammissibili. E di certo non contribuiranno in alcun modo a “fare giustizia per Ramy”. Ma è altrettanto inutile e pericoloso criminalizzare indistintamente chi protesta e l’inquietudine dei giovani di origine immigrata confinati nelle periferie povere.
La risposta migliore alla drammatica morte di un ragazzo egiziano di 19 anni ce l’ha indicata suo padre: rispetto delle regole, unità e fiducia nelle istituzioni. Di fronte alla dignità di un genitore convinto che solo così si può onorare la memoria del figlio e aspettare la verità sulla sua morte, la cosa più saggia da fare è una sola: ascoltiamolo, per favore.

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