sabato 13 marzo 2010
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Caro direttore,ho appena letto l’articolo di Francesco Riccardi nell’inserto "èlavoro" del 3 marzo e ne condivido appieno il contenuto. La visione totalizzante del lavoro, che costringe indifferentemente uomini e donne a un impegno medio di 8/9 ore giornaliere, non solo non consente di cogliere lo «specifico femminile», come afferma Riccardi, ma impedisce alla donna di svolgere con serenità e pienezza il ruolo insostituibile di madre. Senza contare che una presenza molto limitata del genitore in famiglia ostacola innegabilmente la realizzazione di un autentico progetto educativo, che richiede tempo, presenza, pazienza. Le attuali politiche di conciliazione tra lavoro e impegno familiare puntano quasi esclusivamente alla creazione di nuovi servizi, dando per scontato che una lavoratrice debba trascorrere quasi tutto il giorno sul luogo di lavoro. Risultato: uffici pieni e case vuote. Che tristezza! A mio avviso la priorità dev’essere un’altra: ripensare il modello di occupazione femminile, in primis comprimendo l’orario di lavoro, senza lunghe pause o intervalli che disperdano tempo prezioso; in secondo luogo, incentivare il part-time, con agevolazioni e sgravi fiscali. Ciò permetterebbe alla donna di trascorrere diverse ore in famiglia, perché «una madre nutre i figli con la propria presenza, e da questo suo "esserci" lei riceve tantissimo» (cito dal bel libro "Casalinga in carriera" di Elisa Tumbiolo). È proprio vero, caro direttore! Stare con i propri figli non può essere il privilegio di poche fortunate o un lusso da pagare con la perdita del lavoro. Nessun asilo nodo, nessuna baby-sitter, nessuna nonna, potrà mai sostituire la mamma.

Giovanna Zarantonello, Este (Pd)

Caro direttore,mi chiamo Chiara, ho 32 anni e sono la mamma di due bambini, uno di 3 anni e uno 11 mesi. Circa 8 anni fa sono stata assunta da una media impresa conciaria con le mansioni di impiegata amministrativa. Mi sono laureata in Economia e commercio con lode e quel posto rispondeva al mio profilo professionale. Sin da subito ho capito che all’interno di quell’impresa c’era una grossa dicotomia tra lavoro maschile e femminile: i posti di «comando» erano maschili e per me non ci sarebbe stata nessuna possibilità di carriera. Il lavoro è proseguito tra alti e bassi finché, 5 anni fa, mi sono sposata e dopo poco sono rimasta incinta del mio primo bambino. Ho lavorato fino all’ultimo giorno e in più, per venire incontro alle esigenze aziendali, mi sono recata saltuariamente al lavoro sia durante l’astensione obbligatoria che in quella facoltativa. Al mio rientro si è posto il problema della conciliazione tra famiglia e lavoro. In tale frangente ho scoperto che tutte le lavoratrici madri di quell’azienda si erano dimesse a seguito della mancata concessione del part-time al ritorno dalla maternità. In quell’occasione per motivi familiari ho accettato di ritornare a orario pieno e tra mille difficoltà ho continuato a lavorare fino a quando ho scoperto di aspettare un altro bambino. Durante la maternità mi sono sempre resa disponibile per ogni necessità si manifestasse. Può quindi comprendere la mia costernazione quando al ritorno mi è stato negato in maniera categorica la possibilità di ridurre l’orario di lavoro. Mi è stato detto che il contratto prevede un orario aziendale per tutti dalle 8 alle 12 e dalle 14 alle 18 senza deroghe e senza neppure possibilità di fare l’orario continuato. Mi si è prospettata una scelta difficile: lavoro o famiglia? Io ho scelto la famiglia a discapito della sicurezza economica! Adesso è dura, ma ricomincerò da capo. Mi amareggia aver realizzato che dopo anni per l’azienda restavo solo un numero anzi un «problema» di maternità. Tutti parlano di conciliazione tra lavoro e famiglia, però nel concreto non c’è una legge che tuteli le lavoratrici madri, garantendo una quota aziendale di contratti part-time. Ma io sono qua e continuo a sperare che qualcuno si faccia avanti con un’offerta seria a tempo parziale.

Chiara Maria Ronzan, Sovizzo (Vi)

La signora Zarantonello ha colto bene il senso dell’editoriale scritto dal collega Riccardi alla vigilia della festa della donna. In particolare, l’esigenza che la riflessione sulle pari opportunità non si limiti a chiedere di potenziare l’offerta dei servizi (pur necessari) ma punti a rimuovere gli scogli anzitutto culturali che oggi precludono una maggiore presenza femminile nel mercato del lavoro retribuito (sul fronte del lavoro non retribuito, le donne – come si sa – sono... imbattibili). Nei giorni scorsi, ad esempio, a Milano è stata avanzata la proposta di creare asili nido aperti 24 ore su 24, per ospitare i figli di quelle dipendenti (infermiere, operaie) che lavorano di notte. Certo, possono esistere esigenze particolari, ma non riusciamo a condividere l’entusiasmo con cui è stata lanciata l’idea. Davvero non esistono risposte migliori nell’organizzazione dei turni, nell’aiuto sussidiario alle famiglie, rispetto a quella di portare un bambino tra gli 1 e i 3 anni a dormire la notte fuori casa? Siamo sicuri che questo sia il modo migliore per favorire le madri nel loro duplice ruolo professionale ed educativo? Ciò che va ricercata non è una parità omologante, che riconduca la presenza femminile al modello di lavoro maschile, basato su orari rigidi e lunghi. Occorre invece promuovere, all’interno delle imprese, modelli funzionali che premino il merito, le capacità organizzative e di risposta, l’inventiva femminile, lasciando nel contempo spazio e tempo ai compiti di cura familiare. Non si tratta né di utopia né di misure destinate a sconvolgere i bilanci aziendali, proprio per questo quanto raccontato dalla signora Ronzan suona davvero sconfortante. Sono convinto che un utilizzo intelligente della flessibilità degli orari e soprattutto del part-time – come entrambe le lettrici sottolineano – può determinare significativi incrementi di produttività, assieme a una riduzione dei costi. La valorizzazione del genio femminile nel lavoro non può prescindere dal riconoscimento dell’identità profonda delle donne. Cominciamo da qui, perché siamo già in enorme ritardo, e rischiamo di sbagliare approccio. Ma poi non dimentichiamoci che molte di queste riflessioni possono e debbono essere estese anche ai padri, il cui ruolo educativo oggi è al tempo stesso sempre più sentito e messo in difficoltà. Un caro saluto a entrambe le lettrici, augurando alla signora Ronzan che la sua seria disponibilità a un lavoro part-time trovi presto uno sbocco in un’azienda altrettanto seria e disponibile.
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