giovedì 10 febbraio 2011
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Caro direttore, ho letto dell’appello della Fp-Cgil e Ff-Cgil medici, dal titolo accattivante «Io non costringo, curo!», al quale hanno aderito (e come poteva essere altrimenti?) "illustri" colleghi quali Umberto Veronesi e Ignazio Marino, del Pd, e Antonio Palagiano, dell’Idv. Tralascio il commento sulle motivazioni della adesione di tali personaggi (sconcertante quella di Ignazio Marino, che non si rende neanche più conto di affermare con la sua battaglia politica quello su cui apparentemente e polemicamente si interroga: «Nel momento in cui si perde lo stato di coscienza, si perdono anche i diritti, che vanno automaticamente a chi ha vinto le elezioni»). Mi limito, da medico, a dire che avrei volentieri aderito a un appello molto più semplice, solo che qualcuno avesse avuto il coraggio di proporlo: «Io curo!» o, tradotto in un linguaggio più moderno, «Io mi prendo cura!». Ecco, un appello così l’avrei firmato subito, anche perché mi avrebbe ricordato quell’altro slogan, sostanziato da una vita donata e spesa al servizio degli altri, quello slogan che don Milani aveva scritto nella sua lavagna a Barbiana e che il nascente Pd di Veltroni aveva fatto (forse inopinatamente) proprio: «I care». Da medico dico: mi prendo e mi prenderò cura dei malati, e non li abbandonerò né li lascerò morire da soli, privati di quel sostentamento di base che non si nega a nessuno. Altri aderiranno a quell’invito. Io preferisco aderire all’invito che 2.500 anni fa ci fece il saggio Ippocrate, quando ci invitò a prestare il giuramento solenne: «Sceglierò il regime per il bene dei malati secondo le mie forze e il mio giudizio, e mi asterrò dal recar danno e offesa». In altre parole: «Io curo!».

Paolo Marchionni, Pesaro

Ha proprio ragione, caro dottor Marchionni, Non abbiamo bisogno di parole irate e di proclami demagogici, ma di una scienza e di una medicina semplicemente al servizio della persona. E lei, da medico, con consapevolezza e umiltà ce lo fa capire anche in queste poche righe. Abbiamo bisogno di riandare all’essenziale: alla nuda vita, alla nuda sofferenza, alla nuda dedizione, alla nuda speranza che si condensano nelle storie di malattia, di cura e – a volte, grazie a Dio e alla competenza e alla passione degli uomini – di guarigione. Abbiamo bisogno della nuda verità che si sperimenta al limitare della vita, e del nudo rispetto del minimo dovere di solidarietà – acqua e cibo – nei confronti di chi da solo non può più nutrirsi. Tutti, sulla propria pelle o su quella di persone care, prima o poi vivono queste prove. Non parlo per sentito dire o, come qualcuno potrebbe pensare, solo da cronista (per quanto capace di partecipazione), perché a me è già toccato. E ammetto di non poterne proprio più delle battaglie all’ultimo slogan ingaggiate da chi non ha rispetto né della vita né della morte.
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