sabato 6 febbraio 2021
Le emissioni di CO2 hanno subìto un calo limitato e temporaneo nonostante il blocco delle attività. Il ruolo degli Stati e delle grandi aziende globali è decisivo
Non basta stare in lockdown per vincere la sfida del clima

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Ricordate i cieli azzurri della scorsa primavera? Tutto fermo, tutto chiuso, tutti a casa... Sembrava che questo sacrificio imposto dalla pandemia fosse almeno utile a ridurre le emissioni di CO2 e l’inquinamento atmosferico. E invece, no: i lockdown non hanno migliorato l’aria delle nostre città, né sostanzialmente abbattuto i livelli di anidride carbonica. Eppure, le nostre automobili sono state ferme e i nostri consumi si sono ridotti. Così è emersa una “scomoda verità”: se ognuno di noi 7 miliardi di esseri umani si comportasse improvvisamente in modo sostenibile in ogni aspetto della propria vita, ciò non basterebbe a raggiungere i target climatici utili alla nostra serena sopravvivenza sul pianeta. Perché per impedire la crescita della temperatura terrestre dobbiamo abbattere i livelli di CO2. E per ridurre le emissioni di anidride carbonica è indispensabile l’impegno di molte delle principali aziende mondiali.

Per salvarci, in sostanza, deve essere l’economia globale a cambiare presto e in modo drastico attraverso la riduzione delle emissioni di alcuni tra i suoi principali attori. Per questo è importante che gli Stati fissino obiettivi ambiziosi e li sappiano (far) rispettare. Che le imprese cambino radicalmente molti dei loro processi produttivi. E che i cittadini modifichino le proprie azioni, ma soprattutto condividano le riforme necessarie. Non è più una questione opinabile, né una scelta ideologica: il business as usual teso al massimo profitto di alcuni grandi colossi economici sta condannando l’umanità a un’estinzione precoce. E i lockdown del 2020 hanno mostrato una volta per tutte che anche se teniamo chiusi negozi, pub, stadi, comuni e regioni, se rimaniamo a casa, se rinunciamo alla nostra vita sociale e ai nostri viaggi, tutto questo, se può contribuire a ridurre temporaneamente l’inquinamento locale, non basterà ad abbattere la CO2 in modo funzionale agli obiettivi tracciati a livello internazionale per contenere l’innalzamento della temperatura terrestre. Anche perché una cosa è lo smog, che danneggia la salute, e sul quale si può intervenire con misure locali, un’altra la produzione di CO2 responsabile del riscaldamento climatico, che richiede più azioni globali.

Ma davvero, dunque, le emissioni non sono sostanzialmente calate durante le chiusure forzate del 2020? A settembre, le Nazioni Unite e alcune tra le massime autorità mondiali in tema di cambiamenti climatici hanno pubblicato il report “United in Science 2020”: «Il cambiamento climatico non si è fermato per il Covid-19. Le concentrazioni di gas serra nell’atmosfera sono a livelli record e continuano ad aumentare. A seguito di un calo temporaneo causato dal blocco e dal rallentamento economico, ora le emissioni si stanno dirigendo verso i livelli pre-pandemici. E il mondo è destinato a vedere i suoi cinque anni più caldi mai registrati». Questo rapporto indicava un “calo temporaneo” generale del 17% delle emissioni di CO2 tra aprile 2019 e aprile 2020. Una percentuale vista al ribasso dal Global Carbon Budget 2020 che a dicembre segnava una contrazione del 7% (cioè una riduzione di appena 0,01°C). E inaspettatamente uno studio pubblicato a gennaio su Science Advances mostra che in certe grandi città come Londra e Parigi le concentrazioni di ossidi di azoto, ozono e PM2,5 siano addirittura aumentate nel 2020. Dati che richiamano i risultati del rapporto annuale di Legambiente “Mal’aria 2021” secondo cui 60 città italiane come Torino e Milano hanno fatto registrare una media annuale di PM10 oltre il consentito.

In conclusione, nonostante i lockdown, le emissioni di CO2 sono calate di poco e a parte questo in certi casi anche la qualità dell’aria è peggiorata durante le chiusure. Perché? Secondo il report di Legambiente, «un beneficio dal blocco del traffico c’è stato (...) ma le concentrazioni di polveri sottili, in particolare in area Padana, sono sostenute in modo molto limitato da emissioni di fonte primaria (...), ad essere sempre più prevalenti sono infatti le polveri di formazione secondaria (...) la cui fonte prioritaria è l’allevamento del bestiame, attività che non ha avuto alcuna limitazione conseguente al lockdown». Agricoltura e allevamenti sono anche la seconda fonte assoluta di emissioni per quanto riguarda l’anidride carbonica (18% del totale). La Pianura Padana (che ospita anche molte industrie) e la Polonia del Sud sono le aree in Europa con i maggiori problemi. Ma a incidere a livello globale è stata soprattutto la prima fonte di anidride carbonica di origine antropica: da maggio scorso le estrazioni di idrocarburi sono tornate a crescere. Ovvero la ripresa dell’estrazione di gas, carbonio, petrolio ha azzerato gli effetti positivi del lockdown sulle emissioni.

Vale infatti la pena ricordare che la più grande fonte di gas serra risultante da attività umane è la combustione fossile per generare elettricità, calore e trasporti. Soprattutto in Cina, Usa, India (questi tre paesi da soli emettono la metà della CO2 globale), Russia e Giappone: ovvero le prime cinque nazioni per emissioni. Secondo un report del Carbon Disclosure Project, l’industria dei combustibili fossili e i suoi prodotti rappresentano circa il 70% di tutte le emissioni di gas serra di origine umana e «se la tendenza nell’estrazione di combustibili fossili continuasse nei prossimi 28 anni come nei 28 precedenti, le temperature medie globali aumenterebbero di circa 4°C rispetto ai livelli preindustriali entro la fine del secolo». Il problema del cambiamento climatico ha una soluzione principale nell’innovare i modelli di business delle principali aziende estrattrici. Le attività estrattive più pesanti per l’ambiente si riferiscono in primis al carbone, quindi al petrolio e al gas. E le prime 50 aziende di combustibili fossili rappresentano la metà delle emissioni globali di gas serra di origine industriale. In cima a tutte c’era fino al 2015 la Saudi Aramco, che da sola produceva 2 gigatonnellate di CO2 (quanto Germania e Iran messi assieme), quindi Gazprom, National Iranian Oil, Coal India mentre la nostra Eni copriva fino a 5 anni fa la 36esima posizione (circa 0,25 gigatonnelate di CO2).

Come queste aziende devono affrontare la questione? Impostando ambiziosi piani di transizione energetica verso le rinnovabili, perché la produzione di energia da sola rappresenta i tre quarti delle emissioni globali. Per questo sono così importanti le nuove fonti energetiche “green”. Un altro settore economico direttamente responsabile delle emissioni di CO2 equivalente è quello agricolo. Soia e riso nei campi, deforestazione e allevamenti di bovini sono tra le cause principali di emissioni del settore: dal 2000 al 2017 quelle legate a quest’ultimo segmento sono aumentate del 16%, così come il consumo di carne rossa. Qui la scelta del consumatore può fare la differenza, rendendo la dieta quotidiana sempre più “green” e premiando aziende che si comportano produttivamente secondo criteri di sostenibilità. Tra le multinazionali più impattanti a livello ambientale ci sono anche colossi dell’alimentare come Cargill, Coca-Cola, Danone, Mars o Nestlè: oggetto di denunce pubbliche, in alcuni casi stanno provando a diventare più green.

Segue quindi il settore dei trasporti: prima delle nostre automobili ci sono il comparto aereo e marittimo. Basti pensare che 230 navi da crociera inquinano 20 volte più di tutte le auto in circolazione in Europa. E che l’aviazione e la navigazione internazionali sono state le fonti di emissioni di CO2 in più rapida crescita negli ultimi anni. Le soluzioni per trasformare il sistema economico sono moltissime. Incentivi pubblici come l’European Green Deal o il Recovery Fund spingono le aziende a trasformare i propri modelli di business per rendere più verde la nostra economia. O l’eco-bonus, che interviene sull’ottimizzazione energetica degli edifici, fonte principale di emissioni di CO2 nelle città. C’è quindi il contributo che può dare la finanza, ad esempio attraverso i criteri Esg per il rating dei titoli, o le scelte di colossi privati come Blackrock, o istituzionali come la Bei, che stanno incentivando investimenti nelle aziende “green”. Bisogna anche mantenere, nella nostra quotidianità, comportamenti sostenibili: le nostre scelte condizionano l’intera società e così l’economia. È necessario consumare meno e consumare meglio, premiando dove possibile le aziende virtuose.

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