In fondo, sta tutto in quelle quattro parole. «Veni ad salvandum nos», recita l’antica antifona liturgica evocata da Benedetto XVI nel messaggio Urbi et Orbi: «Vieni a salvarci». Il senso profondo del Natale sta tutto in questa invocazione da prigionieri, o da naufraghi. Ma noi, sappiamo ancora di avere bisogno di essere salvati? A volte sembra che il senso del Natale se ne resti coperto da una crosta spessa di tempo, di abitudine, di sentimentalismo; e che anche fra noi cristiani si smarrisca la memoria della drammaticità dell’avvento di un Dio che nasce come un uomo, da una donna. Che bisogno ce n’era? potrebbe chiedersi uno dei nostri figli. Che bisogno ce n’è, se gli uomini sono così potenti, audaci nella scienza e nella tecnologia, e da sé ben capaci di sapere cos’è bene e cosa è male? Nulla è più inutile di un salvatore, in un mondo che non ha bisogno di essere salvato.
Ma sembra che Benedetto con una ostinazione mite vada, ogni volta che parla, scavando con una pala in questa nostra crosta di abitudine opaca, disseppellendo come un cercatore di tesori i frammenti di una sapienza ossidata da una ruggine di smemoratezza e indifferenza.«Veni ad salvandum nos»: questo, ha detto il Papa, «è il grido dell’uomo di ogni tempo, che sente di non farcela da solo». È l’invocazione a un Dio venuto «per salvarci dal male profondo, radicato nell’uomo e nella storia». Quel male che è «l’orgoglio di fare da sé, di essere il padrone della vita e della morte».
Sappiamo ancora, noi cristiani del Natale dell’anno 2011, di questo male originario? Non sempre, non almeno finché la vita ci scorra quieta, riparata dai peggiori dolori; non finché abbiamo un tetto, e il necessario e anche il superfluo, finchè la guerra o la fame – Siria, Afghanistan, Corno d’Africa, Sudan, ha elencato dolentemente il Papa – è solo un’eco incomprensibile e lontana, nelle immagini dei tg; finché la morte non morde e lacera, togliendoci chi ci è caro. Fino a che dolore e violenza non ci toccano davvero, possiamo essere, e facilmente siamo, ignari della condizione di prigionia da cui nasce il grido: «Veni ad salvandum nos». Possiamo cantare davanti a un presepe, distratti e intimamente annoiati: vieni a salvarci, ma a salvarci da che?
Emmanuel Mounier ha scritto che Dio passa attraverso le ferite. Forse è inesorabilmente così, nella storia di ogni uomo. Solo una mancanza, una miseria, una faccia che improvvisamente ci manca, aprono un varco nella corazza della autosufficienza e dell’orgoglio. Solo nel giorno in cui ci si scopre poveri quella domanda, «vieni a salvarci», acquista la sua forza poderosa. (E solo allora forse siamo autenticamente uomini, cioè consci di essere figli, creature).
Che cosa strana, il Natale fra noi ha spesso un senso pieno finché siamo bambini, e dunque non ancora illusi di essere autonomi. Poi, con l’età ci si forma addosso, giorno dopo giorno, quella crosta di orgoglio per cui crediamo di non aver bisogno di alcun liberatore.
Se non arriva un dolore, o una malattia o una guerra, talvolta solo la vecchiaia ci induce a 'scendere dal cavallo della nostra ragione illuminata', come ha detto il Papa nell’omelia di Natale: a deporre 'false certezze e superbia intellettuale'. E solo scesi dai nostri fieri cavalli prende voce e sangue la domanda del Natale: 'vieni', vieni tra noi, in mezzo a noi, nella nostra stessa carne. Soltanto in questa umiltà accade di riconoscere cosa è successo davvero, in quella grotta la cui memoria a volte ci annoia, tanto questa storia ci è stata mille volte raccontata.
Che tutta la vita ci sia data per arrivare a un istante da anime nude, che finalmente riescono, in quel neonato, a vedere Dio, venuto fra noi come un uomo? Che sia per questo che invecchiamo e da forti diventiamo deboli, da potenti, imbelli, da intelligenti, smemorati e confusi? Tutta la vita per ridiventare come bambini, per chiamare: 'vieni', come i bambini chiamano la madre. Tutta la vita per riconoscere, per toccare, nel Natale, un Dio nato bambino.