venerdì 9 febbraio 2024
Nel suo libro postumo “Dare la vita”, la scrittrice e attivista promuove le convivenze “queer” e la pratica dell’utero in affitto a pagamento. Ma i suoi argomenti non reggono
Michela Murgia (1972-2023) a Cabras, in una fotografia di alcuni anni fa

Michela Murgia (1972-2023) a Cabras, in una fotografia di alcuni anni fa - Ansa

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“Quando qualcosa non vi torna datemi torto, dibattetene, coltivate il dubbio. La mia anima non ha mai desiderato generare né gente né libri accondiscendenti. Fate casino”. Lo scrive Michela Murgia in apertura a “Dare la vita” (ed. Rizzoli), l’ultimo libro uscito postumo, una sorta di testamento spirituale cui teneva al punto che secondo il suo medico Fabio Calabrò la mattina del 10 agosto, giorno della morte, la scrittrice gli disse che ormai poteva andarsene “perché aveva finito di dettare il libro sulla gestazione per altri” (la Gpa), mettendo insieme suoi articoli dal 2016 in poi.
Più liberale dei suoi fan, che ne hanno fatto un totem indiscutibile, la Murgia ha inteso dunque offrire non un saggio, ma una serie di considerazioni che stimolassero la discussione sulla Gpa (o maternità surrogata o utero in affitto) dal punto di vista strettamente logico. Infatti non fa cronaca, non racconta la situazione della Gpa nel mondo, non dà numeri, non parla dei Paesi in cui la pratica è legale o illegale, non cita storie vere né sembra conoscere i contenuti dei contratti con cui gli acquirenti – che chiama “genitori intenzionali” – fissano i loro diritti sul bambino che nascerà e sulla donna che lo partorirà per loro in cambio di denaro (o se li conosce non ne accenna mai); invece conduce il lettore attraverso una serie di suoi ragionamenti per dimostrare la teoria della Gpa come conquista di civiltà. Una disquisizione di tipo logico, insomma, con deduzioni e controdeduzioni.
Dalla “famiglia queer” alla gestazione per altri
Ma è proprio sulla logica che “Dare la vita” è un libro carente, basato su passaggi che non reggono. Il principio più frequente portato avanti dalla Murgia per legittimare gli aspetti critici dell’utero in affitto è che nella vicenda umana esistono anche altre pratiche altrettanto riprovevoli: una sorta di mal comune mezzo gaudio, come a dire che un male rende accettabile un altro male e una tragedia ne giustifica un’altra (la chiameremo la teoria del benaltrismo). L’altra argomentazione che sostiene è che se cercassimo di evitare le pratiche disumane vietandole come reato, non riusciremmo mai a bandirle del tutto, dunque tanto vale legittimarle, normarle con regole che, di fatto, ne sanciscono l’accettazione (la chiameremo la teoria del male minore).
Il libro si divide in due parti apparentemente autonome (queerness e Gpa), in realtà collegate esplicitamente dall’autrice: secondo la sua visione, infatti, la queerness farebbe da presupposto alla Gpa.
La prima metà è dedicata dunque alla “famiglia queer” che la Murgia negli ultimi tempi ha creato attorno a sé, ovvero una “famiglia fatta da legami altri”, non di sangue ma “di anima”, rifiutando il sistema binario uomo-donna per “la scelta di abitare sulla soglia delle identità, accettando di esprimere di volta in volta quella che si desidera”. La queerness, spiega, “è una scelta di transizione permanente, attraverso la quale chiunque può decidere di non confinare sé in alcuna definizione, nemmeno quelle della comunità Lgbtqia+”. In un contesto del genere, sostiene, “gravidanza e maternità” vanno disgiunte: “Io la mia maternità la vivo senza essere mai passata dallo stato interessante”, scrive assolutizzando la sua esperienza personale. Niente di nuovo in fondo, sappiamo dalla notte dei tempi che si può essere “figli d’anima” e “madri (e padri) d’anima” senza passare necessariamente per la discendenza biologica, basterebbe che la Murgia avesse incontrato le migliaia di famiglie aperte all’accoglienza per scoprire che tutto questo esisteva già e non per ideologia: un esempio tra tanti, l’Associazione Papa Giovanni XXIII di don Benzi e il mare sterminato di “figli di cuore”, come li chiamano loro, che popolano le loro famiglie accanto ai “figli di pancia”, che siano sani o disabili, bianchi o neri, giovani o vecchi, italiani o stranieri, eterosessuali o lgbt, senza che nessuno chieda loro conto di tutto questo.
La gravidanza è solo “un processo fisico”
Ma alla Murgia smantellare la “famiglia tradizionale” è funzionale in termini di logica per approdare alla seconda questione che le sta a cuore, la Gpa – unica definizione che accetta, rifiutando non solo utero in affitto (“orrido nome”) ma persino maternità surrogata –: se infatti maternità e gravidanza diventano concetti slegati o addirittura antitetici, partorire un bambino non fa di una donna sua madre, e cederlo ad altri non è più così grave. “Non è tollerabile in un discorso serio – scrive – sentir definire ‘maternità’ quello che invece è il processo fisico della sola gravidanza (…)”, di conseguenza non si può parlare di “maternità surrogata” ma solo “di gravidanza surrogata”. Sembra una questione di lana caprina, ma ciò che sostiene è che vendendo per soldi il bambino partorito si cede solo l’atto fisico di una gestazione. Colpisce in questo e in molti altri passaggi la visione angusta della gravidanza vista come “processo fisico”, ignorando totalmente quell’universo di interazioni e crescita simbiotica che per nove mesi unisce indelebilmente la madre con suo figlio.
La famiglia “tradizionale” è quindi liquidata come la “struttura cara alle destre, che insieme a Dio e Patria ne hanno sempre fatto slogan”, ma cara anche “ai moderati cattolici” per colpa della Chiesa “che la considera la cellula primaria della società cristiana”. Però è costretta con un certo dolore a opporsi anche a “donne che stimo e con cui ho condiviso percorsi”, cioè le femministe del movimento Se Non Ora Quando-Libere che nel 2015 lanciarono un appello alle istituzioni europee “affinché dichiarassero illegale quella che loro chiamavano ‘maternità surrogata’”. Il termine la infastidisce perché prevede “una sorta di ‘naturalità’ insita nel legame di gestazione”, legame naturale che la Murgia incredibilmente nega. Così come la “sbalordisce” il fatto che queste femministe parlino della maternità come di “percorso di vita” e “avventura umana straordinaria”. Murgia avverte: se si sostiene una “unicità insostituibile del legame tra gestante e feto” (tra madre e figlio) si finisce per mettere in discussione non solo la Gpa ma anche “diritti” già normati nel nostro sistema giuridico, ovvero l’aborto, il parto in anonimato e persino l’adozione.
Famiglia tradizionale e famiglia mafiosa
Il gap logico è evidente. Così come il successivo svarione semantico con cui la Murgia sovrappone la parola “famiglia” alla “famiglia mafiosa”. Lo fa appoggiandosi a quello che definisce “il nostro intellettuale più lucido e coraggioso”, Roberto Saviano: “Alla domanda ‘quando finiranno le mafie?’ Roberto ha risposto che questo avverrà solo quando finiranno le famiglie, cioè ‘quando l’umanità troverà nuove forme d’organizzazione sociale, nuovi patti d’affetto, nuove dinamiche in cui crescere vite’ ”. La mafia è colpa della famiglia madre/padre/figli, dunque? “Saviano non ha detto niente di così scandaloso associando la struttura familiare tradizionale a quella mafiosa, che dopotutto si definisce essa stessa ‘famiglia’. La logica del ‘tengo famiglia’ giustifica qualunque reato o compromesso”. Un sillogismo assurdo, tanto più che anche la “famiglia queer” si avvale dello stesso termine…
È vero e toccante, invece, il passaggio successivo: “Una società moderna, democratica e plurale dovrebbe strutturare rapporti di affidabilità a prescindere dai legami di sangue, e considerarsi tanto più evoluta quanto più l’affidabilità si estende a chi è estraneo al gruppo familiare”. Come detto, nulla di nuovo e nulla di queer, è esattamente il Vangelo attuato, oltre alla prassi quotidiana che un mare di realtà, ecclesiastiche o meno, applicano instancabilmente proprio all’interno della famiglia.
L’esperienza di “famiglia tradizionale” conosciuta dalla Murgia risulta invece totalmente triste: “Un sistema di poteri patogeni dove le persone sono ruoli inamovibili, le relazioni dispositivi di controllo, i corpi demanio pubblico e i legami familiari meccanismi di deresponsabilizzazione”. Solo queerness e Gpa ci salveranno, entrambe rivelando “i limiti del concetto di normalità” e offrendo “spunti per ridisegnare” un nuovo mondo libero da odiosi luoghi comuni come “stato interessante, sacra famiglia ecc”.
Aborto e utero in affitto: la povertà è un destino ineluttabile
Stabiliti dunque questi presupposti, la Murgia passa ad analizzare gli aspetti della Gpa che anche lei sente problematici. Primo tra tutti il passaggio di denaro in cambio di un neonato. Intanto nega che ad essere venduta sia una persona, perché – sostiene – “le donne povere vendono la propria capacità riproduttiva, non un figlio”. Però si domanda: “È socialmente accettabile che donne povere possano venderla a coppie che dispongono dei mezzi per compensare una gravidanza?”. Subito risponde che la pratica non va vietata, perché tanto “qualcuno andrà a cercare la risposta in India” (è una teoria del male minore. Come a dire, ad esempio, che è inutile vietare l’acquisto delle armi, tanto chi vuole sa dove trovarle). D’altra parte, sostiene poi, anche aborto o abbandono dei figli sono “di fatto interruzioni di una relazione biologica”, e qui arriva la teoria del benaltrismo: “Si abortisce, anche a fronte di un desiderio di maternità, soprattutto per ragioni economiche”, quindi “se in questo Paese esiste una legge che consente l’interruzione di gravidanza perché non si hanno sicurezze economiche, secondo quale logica non dovrebbe esistere una legge che ne consenta invece l’inizio per ottenere quelle sicurezze? Quale sarebbe la ragione per cui si può impedire la nascita di un essere umano perché non si hanno abbastanza soldi, ma non si può ipotizzare una legge che permetta di realizzarla per ottenerli?”. Dunque per la Murgia se le donne povere sono già costrette ad abortire il figlio tanto desiderato, perché non sottoporle con l’avallo di una legge anche al dover vendere il figlio per risolvere la povertà? In effetti per un attimo si rende conto della gravissima disuguaglianza cui sta destinando le donne più fragili, sottoposte in entrambi i casi a pratiche disumane che le donne ricche non subiscono in quanto ricche, tant’è che ammette: “Che poi lo Stato debba fare di tutto per rimuovere le ragioni economiche dell’una e dell’altra scelta è una questione di giustizia”, ma conclude “finché non saremo socialmente in grado di rimuovere gli ostacoli economici che impediscono loro di diventare o no madri, esse devono poterlo fare dentro a un quadro di regole che le tuteli”: insomma, il loro destino è ineluttabile, tanto vale legalizzarlo.
Figli ceduti per soldi? Così fan tutte (anche le badanti)
Sa bene che la fantomatica Gpa solidale (gratuita) non esiste o quasi, “immaginare che una gestante surrogata possa affrontare tutto questo per altruismo significa riferirsi a una ridottissima minoranza, tutte le altre donne lo faranno per soldi e per nessun altro scopo”. Ma il mercato umano è giustificato: “Mi appare impensabile chiedere a qualcuna di affrontare un simile impegno senza prevedere un’alta remunerazione”. Sembra non considerare che l’alta remunerazione non va certo alla gestante ma al suo sfruttatore (che sia un singolo o un intero sistema di business), e che comunque nessuna vita può essere venduta né regalata, semplicemente perché non appartiene. È vero, continua, che “99 su 100 non lo farebbero mai se non fossero povere”, ma non avviene così anche per le badanti? Non lasciano in patria i loro figli per venire a guadagnare? (benaltrismo). “Nessuno stipendio consentirà mai loro di ricomprarsi quello a cui stanno rinunciando”, i figli: giusto, ma questo già gravissimo problema può fare da alibi a un problema ancora più estremo?
“Si compra una gestazione, mica un essere umano”
Ammette anche il fatto che normare la Gpa non risolverebbe la mercificazione, anzi, “legittimerebbe la gravidanza surrogata come opportunità per gente con i soldi” e a questo punto la stessa autrice si dice confusa. E scopre l’acqua calda: siccome i “genitori intenzionali” pagano, sono convinti di “stare ordinando un bambino” (cosa che di fatto fanno, ma secondo la Murgia “il denaro versato non può essere considerato un corrispettivo per il bambino, ma solo per la gestazione. Si paga il tempo, non si compra chi nasce”). Se sono erroneamente convinti di acquistare un bambino – prosegue – possono pretendere di avere “un prodotto conforme, con tutto l’orrore che ne deriva”. E di nuovo si incarta: “È possibile rifiutare un bambino malato? È possibile chiedere alla gestante di abortire se la malattia è diagnosticata durante la gravidanza? Sono questioni che turbano” ma “la risposta non potrà che essere sì”, a meno che la Gpa non venga normata. Ennesima contraddizione: se vietare l’utero in affitto come reato universale non funzionerebbe perché le leggi vengono sempre aggirate, come mai altre leggi che lo limiterebbero dovrebbero essere rispettate? Risposta: “Le leggi che consentono sono le uniche che possano mettere dei limiti all’azione che stanno legittimando, per il fatto stesso di riconoscerla”. Se Lincoln l’avesse pensata così, la schiavitù dei neri sarebbe stata legiferata anziché bandita, così come la tratta umana, la tortura, l’omicidio, lo stupro, la pedofilia: nessun reato sarà mai deradicato nonostante mille leggi, ma la soluzione non è regolamentarlo, bensì fare di tutto perché non accada.
Figlio pagato, figlio privilegiato
Eppure la Murgia conosce bene cosa avviene proprio là dove la Gpa è legale: nei (pochi) Paesi degli Usa che ammettono l’utero in affitto – scrive – gli acquirenti pretendono “un prodotto genetico con delle specifiche” (in realtà avviene ovunque, perché questo vogliono gli acquirenti, etero o gay che siano. Anche a Milano l’anno passato si è tenuta una vera fiera del bambino, con tanto di cataloghi e spot del tipo “ti facciamo un vichingo”), ma sostiene che questo accade perché “la legislazione americana afferma che il feto appartiene ai committenti e consente cose come la scelta del sesso”.
È conscia anche dei tanti casi di prodotto rifiutato (figlio non più voluto, soprannumerario, imperfetto…), ma se la rinuncia alla patria potestà è un diritto per i genitori tradizionali, “perché – si chiede – non dovrebbe essere possibile anche ai genitori intenzionali?”.
Arriva a sostenere che un bambino venduto è un privilegiato: a differenza del figlio che nasce nella propria famiglia (“evento che nei due terzi delle volte oscilla tra casualità e irresponsabilità”), quello commissionato infatti è “desideratissimo”, e il fatto di essere stato “molto pagato” lo rende prezioso, “se fosse capitato a me mi farebbe sentire assai orgogliosa”! Non saprà mai chi sono i suoi genitori? “È un falso problema”, taglia corto, “dato che anche un bambino generato tradizionalmente può essere stato concepito con rapporto occasionale, violenza sessuale, rapporto con terzi all’insaputa del partner, prostituzione” (benaltrismo, una tragedia incidentale ne giustifica altre intenzionali). I prezzi sono da capogiro? “Lo so per esperienza, almeno 150mila se non 200mila euro e anche di più”, ma “ammesso e non concesso che la generazione biologica sia così meno costosa” (sic!).
La riflessione si chiude con una serie di esempi biblici di figli partoriti per altri, come a dire che la Gpa è legittimata persino dall’Antico Testamento, episodi che lei stessa definisce “impressionanti”, donne ricche che sfruttano la maternità di donne schiave “in un rapporto gerarchico, fuori da qualunque reciprocità” (cosa c’è di diverso dall’odierno utero in affitto, ci chiediamo?). Deve comunque ammettere che “chi volesse appoggiarsi al testo sacro per giustificare la Gpa si incarterebbe nelle sue contraddizioni perché non c’è niente in quelle pagine che delinei la surrogazione come atto gradito al Signore”. Appunto.
Da “Accabadora” allo schwa
Splendido il capitolo finale del libro, intitolato “Altre madri”, tra altezze vertiginose di cruda liricità e atmosfere ancestrali della sua Sardegna, dove a vent’anni si immaginava “sposa di qualcuno, madre di chiunque, non sapevo cosa fosse la vocazione a essere me”. Un testo che risale al 2008, gli anni di Accabadora, il romanzo-capolavoro che la rese celebre e che già proponeva il tema delle diverse maternità, d’anima più che di sangue. La sua prosa non era ancora inquinata dai continui schwa (Ə) che in “Dare la vita” rendono impervia la lettura, cancellano la differenza tra i due sessi, mistificano una omologazione che non esiste, deformano la grammatica con forzature strampalate (“lƏ concepitƏ sarà espostƏ alle stesse certezze cui è espostƏ unƏ bambinƏ cresciutƏ adottativƏ o allevatƏ da chi l’ha concepitƏ…”). Michela Murgia non aveva ancora rinunciato al genio e al talento di scrittrice per vestire i panni dell’attivista. E la sua prosa era pura poesia.


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