Maria Grazia Ballabio, Paderno Dugnano (Mi)
Caro direttore,Massimiliano è un ragazzo portatore di handicap a cui piace suonare il bongo andando a tempo a modo suo, spesso fuori tempo, e quel fuori tempo mi provoca la pelle d’oca come le unghie che graffiano la lavagna o il bruxismo dei denti la notte… Io sono uno che scrive canti. Li ho scritti, li scrivo e probabilmente li scriverò per donarli alla comunità che vorrà farli propri, nella meditazione e nella preghiera. Per scrivere ognuna di quelle canzoni c’è stato un cammino da percorrere, un pensiero da approfondire, una realtà da vivere. Cito il signor Riccardo Muti – signore, perché il Maestro è solo Uno – da Avvenire del 22 maggio: «… Bisogna dire basta a canzonette o strimpellate di chitarra su testi inutili e insulsi… Non capisco perché una volta c’erano Mozart e Bach mentre ora si va avanti a canzonette: così non si ha rispetto per l’intelligenza delle persone…». Mi sento chiamato in causa. Non so se si possa essere oggettivi affermando che una espressione artistica sia tale. Forse sarebbe più giusto dire se quel brano musicale, quella poesia o quel quadro trasmettono un’emozione nel destinatario. La stessa emozione verrebbe filtrata da ognuno secondo la propria esperienza di vita. Non è colpa mia se Monet mi emoziona più di Picasso o se Chajkovskij mi fa venire più brividi di Mozart. Non è colpa mia se preferisco ascoltare Joni Mitchell invece di Lady Gaga. Qui non si sta facendo la classifica del più bravo: qui parliamo di cuori trasmittenti e di cuori riceventi. E ognuno ha il diritto di emozionarsi, pregare e meditare con la musica che sente più vicina. Non c’è una musica più giusta, o più sacra. La buona fede è sacra. Anzi, la fede. E la speranza. Non la musica o l’arte. C’è una tradizione, è vero. Ci sono le chiese e le cattedrali dall’architettura solenne, stracolme di quadri bellissimi e statue imponenti, e ci sono le chiese romaniche spoglie di tutto… Non penso, insomma, che chi si mette a servizio della comunità impegnando il proprio tempo, le proprie capacità e il proprio talento (o i due soldi della vedova, nel Vangelo), sia da ritenere un insulso strimpellatore. Sono 35 anni che tutte le domeniche suono e canto in chiesa con la mia chitarra. E non dimentico mai che sto svolgendo un servizio e che sono un "servo inutile". Sì, inutile, come quelle «canzonette» che secondo Muti non servono a nulla. Anch’io sono un fautore del principio che le cose debbano essere fatte bene, e cerco ogni domenica di avere la chitarra accordata a 440, la tastiera con il volume giusto e le coriste intonate. Poi appare Massimiliano col suo bongo e la sua disabilità, che nel suonare insieme con me trova un motivo di gioia per la sua vita. Lo so che il suo tempo fuori tempo mi fa inciampare nel ritmo e che fatico il triplo. Ma quel tempo fuori tempo per lui è tutto. Allora immagino una scena: Riccardo Muti con la bacchetta, Massimiliano col bongo e io con la chitarra, seduti davanti a Gesù a chiedergli se vuole ascoltare Mozart o la chitarra col bongo fuori tempo. Probabilmente, sentiremmo l’eco delle due monetine della vedova.Paolo Migani, Roma
Belle e appassionate le vostre lettere, cari amici. Anzi, direi quasi cantate... Nitida e altrettanto appassionata l’invocazione musicale e sacrale di Riccardo Muti, che è un maestro e non «il Maestro», ma che indubbiamente è anche un signore. Ero sicuro che la sua riflessione saettante sulla musica nelle celebrazioni liturgiche, ben raccolta da Pierachille Dolfini, avrebbe provocato reazioni. E mi pare che nelle vostre – pur piccate – ci sia più fede e intelligenza che polemica. Per questo, magari tagliando un po’ (mi perdoni l’ottimo Paolo Migani), le pubblico volentieri, Credo che aiuteranno tutti a riflettere. E a cantare.Si dice a ragione, citando sant’Agostino, che «chi canta prega due volte». Questo mi insegnò, istruendomi ancora bambino sia al canto corale "antico" sia ai canti liturgici "nuovi", il mio carissimo don Giuseppe Biselli nell’Assisi del dopo-Concilio. Dopo un po’, chiedendomi più impegno, mi spiegò che la frase originale suona un po’ diversamente: Bis orat qui bene cantat. Non c’è neppure bisogno di tradurlo quel «bene». E io non l’ho più dimenticato. Anche se non ho faticato molto a capire che il «cantar bene» non è soltanto questione di forma, ma certamente è anche questione di forma. Amo la grande musica liturgica dei grandi maestri e non vi nascondo di aver sempre provato ammirazione (e un po’ d’invidia) per i ben organizzati e coinvolgenti cori di voci che si levano dai banchi dei fedeli in certe chiese d’Oltralpe (soprattutto in Germania) così come nei monasteri femminili e maschili d’Italia e del mondo, ma non posso tacere la consapevole emozione e il senso profondo di partecipazione che m’ispirano le bellissime "canzoni" di Sequeri o di Chieffo o di Giombini oppure, ancora, i canti che letteralmente esplodono nelle liturgie delle comunità africane presenti nelle città che ho abitato o quelli che comunicano la fede delle comunità cristiane dell’America Latina... E sono anch’io sicuro che i bonghi di Massimiliano che inseguono e si fanno avvolgere dalle note e dalle parole di Paolo e da tante altre voci siano parte del «cantar bene» e, più ancora, del «pregare due volte».