Caro direttore,sono una giovane e affezionatissima lettrice di "Avvenire", che seguo con profondo affetto da quando avevo dodici anni. Come molti miei coetanei, ho un profilo attivo su "Facebook", uno dei più diffusi "social network". Tra le altre cose, me ne sono servita per recuperare i contatti con i miei ex-compagni di liceo. Abbiamo organizzato la classica rimpatriata. Durante l’incontro, sono purtroppo venuta a sapere che uno dei miei compagni è improvvisamente scomparso nello scorso marzo: i miei amici avevano visto anche il suo nome fra coloro che avevo invitato, e non avevano osato dirmi che non c’era più. Al di là della costernazione per la prematura scomparsa di un amico, questo fatto mi ha costretta a pensare un po’ a un argomento forse peregrino, ossia "l’immortalità e i social network". Tornata a casa, sono infatti andata a guardare il "profilo" del mio amico, che si è trasformato in una specie di camposanto virtuale, in cui i suoi amici continuano a lasciare pensieri e ricordi. Da un lato è una cosa bella, perché è un modo per rendere esplicita, seppur forse con una certa ingenuità, quella fede nella sopravvivenza delle anime che fortunatamente non è scomparsa nella maggioranza delle persone. Dall’altro, mi ha fatto pensare, perché l’unica cosa che accomuna gli "amici" di una persona su FB è proprio la loro amicizia con quella persona. Se passo in rassegna i miei amici di FB, ve ne trovo delle più svariate provenienze sociali, geografiche, religiose... Compagni di studio, colleghi, conoscenti, membri delle comunità e dei gruppi di cui faccio parte o con cui simpatizzo... Nella vita di ognuno di loro ci sono moltissimi aspetti e sfaccettature, ovviamente, e una di queste, seppur minima, è costituita dalla comunanza di un interesse o di una porzione di vita con me. Nel momento in cui una persona scompare, e nessuno dei congiunti può, sa o vuole disattivare il relativo profilo su FB, è come se questa persona continuasse la sua esistenza: la varietà dei suoi interessi si rispecchia nella varietà delle sue amicizie. Se, per dire, una persona è tifosa di una squadra di calcio, e come tale ha alcuni amici con cui condivide tale passione; fa parte di un gruppo religioso, e ha amici anche lì; è appassionata di un gruppo musicale, e condivide la passione con qualcun altro... la bacheca di quella persona continuerà ad ospitare quella medesima varietà di interessi. Se la nostra pagina di FB è un palcoscenico e un osservatorio sul mondo, da cui possiamo trasmettere messaggi, stati d’animo (o anche solo far sapere cosa stiamo facendo, cosa abbiamo mangiato o se stiamo andando a dormire), e dal quale possiamo venire a sapere le stesse cose dei nostri amici, se ci interessa... dopo la nostra morte diventa una forma virtuale di sopravvivenza, che – lo confesso – a me ha messo una tristezza indicibile. Oltre la nostra autobiografia in diretta, quindi, FB diventa una ricostruzione della nostra personalità, tenuta artificialmente in vita da quelli che ci hanno conosciuto. È un segno anche questo del disagio della nostra società nei confronti della morte? E del fatto che la fede di cui parlavo all’inizio si stia pian piano trasformando in una consolante utopia, anziché nella certezza di una vita vera che si compie nell’abbraccio di Cristo? Non lo so, caro Direttore...
Chiara Bertoglio
La sua sensibilità, gentile amica, le consente di cogliere in modo profondo e problematico un aspetto certamente impressionante delle relazioni "ai tempi dei social network". Posso però dirle che non mi stupisce più di tanto che le persone facciano un’enorme fatica, anche su internet, a "cancellare" legami e memorie che conducono a chi non c’è più. Se ci pensa bene, noi esseri umani siamo sempre, e da sempre, alla ricerca di forme (reali o virtuali) di sopravvivenza. Siamo abitati da un’ansia di eternità che mi piace pensare parte del soffio di Dio. E, consapevolmente o meno, coltiviamo quest’ansia di non perderci e di continuare: nel rapporto con chi amiamo, nell’amicizia, nelle attività che svolgiamo, nelle opere che costruiamo, nella bellezza che alcuni di noi riescono a esprimere attraverso l’arte e che tutti, sia pure in modi diversi, riescono a percepire... Ciò non comporta affatto l’apertura di un conflitto con la speranza cristiana, e non rende inevitabilmente opaco e meramente consolatorio l’orizzonte – essenziale per i credenti – della «vita vera» nella Casa del Padre. A mio giudizio, anzi, la voglia di non far sparire chi ci è caro – e di non sparire noi stessi – nella mente e nel cuore degli altri (e persino in internet) è, comunque, un esercizio di speranza e può irrobustire la nostra capacità d’amore. Noi siamo fatti per questo: per sperare e amare e restare, persino oltre il duro abbraccio di «sora nostra morte corporale».Un’ultima cosa, cara Chiara. Non frequentando Facebook (ma solo per motivi di tempo, unico in famiglia a farne a meno), forse non sono in grado di comprendere sino in fondo la «tristezza indicibile» di cui lei mi mette a parte e che nasce dalla trasformazione del "profilo" del suo amico in un «camposanto virtuale». Epperò ne sono commosso e provocato. Credo, insomma, che faccia bene a ognuno di noi fermarsi a riflettere su questi sentimenti e interrogativi: le domande eterne dell’uomo e sull’uomo non perdono forza per il fatto di correre sul Web. Temo, tuttavia, che più che «il disagio nei confronti della morte» a insediarsi troppo spesso nei giorni e nei pensieri di tanti sia, oggi, il disagio nell’accettare e rispettare davvero la vita, la sua imperfezione e la sua profondità... Accade nei tempi di grande mutamento e di vorticosa accelerazione delle novità. Ma proprio per questo c’è più bisogno del sorriso, della serietà e della tenacia di chi ha incontrato Cristo e la notizia per sempre nuova su Dio e su di noi che Lui ci ha dato.