«An unforgivable mistake», un imperdonabile errore. Alla fine l’ammissione del presidente iraniano Rohani svela la verità sulla sciagura del Boeing della Ukranian Airlines. In una notte di fuoco su Teheran, è stato scambiato per «un apparecchio ostile». Un missile terra-aria Tor MI1 lo ha colpito mentre decollava: pochi disperati attimi e il Boeing è precipitato. 176 morti: «imperdonabile errore», l’espressione di Rohani ferma il respiro, al pensiero di tutti quegli uomini e donne in un lampo annientati. C’erano due coppie di nuovi sposi, c’erano studiosi e scienziati e turisti, e, nelle loro città, chissà quanti, che li amavano, ad aspettarli.
Colpisce la dinamica della tragedia: il Tor MI1 è un lanciamissili piazzato su un carrarmato dotato di un radar. Intercetta ogni traccia nel cielo sul suo schermo, poi, dopo 8/12 secondi, se chi lo conduce non interviene, fa fuoco. Hanno avuto dunque al massimo 12 secondi i soldati sul carrarmato acquattato nel buio, per attivare l’alt. Ma nessuno ha premuto il bottone. Un’arma che lascia all’uomo una funzione solo putativa: se proprio vuoi, fermami. L’altra notte però gli uomini non hanno capito, o non abbastanza in fretta.
Il dolore a Teheran per la sciagura del Boeing abbattuto - Ansa
Mi colpisce sempre come la morte data dalla violenza sia potente, e capace di una rapinosa velocità. Un tasto, un battito di ciglia, e una, o 176, o centinaia di migliaia di vite, come è accaduto con l’atomica, ghermite all’istante – erba, sotto ai colpi di una falce. In stragi come questa di Teheran la voracia della aggressività umana si manifesta chiara: quasi ci fosse detto che davvero basta un niente per cancellare schiere di creature, quando non intere città. E che dunque è evidente che la morte è più potente; che la morte è, di questo nostro mondo, regina.
Sappiamo tutti quanto tempo ci vuole, per fare un solo uomo. Lo sanno le madri, che per nove mesi vegliano sul formarsi del bambino in loro; e conoscono i lunghi silenzi, l’attesa paziente, le tacite domande – sarà sano? crescerà bene? Sanno, le madri, il tuffo al cuore del primo movimento nel grembo, quel frullio di ali di passero a cui una donna si ferma: mio Dio, eccolo. Sanno i calci vigorosi delle ultime settimane, e ne sorridono come di un segno di forza e di impazienza. Sanno le interminabili ore del travaglio, e le grida del parto. Ma il primo urlo dei polmoni colmati dall’aria non è che l’alba, di un uomo e di una donna. Quanto verrà, di notti senza sonno, di giorni di febbre, di cauti e sostenuti primi passi; e di parole balbettate, di attenzione costante, di braccia aperte, a rassicurare. Quanto, di sguardi, tenerezza e dedizione, ci vuole, per fare un uomo. Vent’anni, ci vogliono, venti generosi anni.
E l’altra notte a Teheran – ma è accaduto e accadrà infinite volte, e anche con ben più vittime – è successo un «imperdonabile errore». Dal cielo un lampo e un boato – come un grido oscuro di vittoria. Nelle foto del disastro si vedono mani, arti, poveri “pezzi” sparpagliati, come se un antico nemico ci dicesse: vedete, siete solo un niente.
Ci fa orrore una macchina che lascia meno di 12 secondi per fermare una strage, ci fa tremare, questa vittoria della morte a mani basse. (20 anni per 176, oltre tremila anni di cure c’erano voluti per crescere quegli uomini e quelle donne. E, in un istante, cenere).
Eppure noi sappiamo, abbiamo scritto dentro, l’ordine a vivere, mettere al mondo, crescere. Ogni volta, dopo mille e mille guerre e stermini, le donne e gli uomini sono tornati a concepire figli; e le madri a sentire in sé quel primo volo leggero, e a sorriderne commosse. Ogni volta torniamo a nutrire, cullare, educare nuovi figli, come piante ostinate che ricrescano sempre, anche quando vengano strappate e rase al suolo.
La morte che ci viene dal nostro male originario è una fiera che annichilisce. Ma più forte di quell’annientamento in un attimo è e sarà sempre l’umano istinto di vivere, e continuare nei figli. Tensione lenta, umile, ostinata, che ogni volta risorge. Non esplode in bagliori terrifici, non squarta in pezzi, non incenerisce. È paziente, la vita, come il Dio da cui viene. Non scandisce minacciosa i secondi come il cronometro di una macchina da guerra. La vita, che è di Dio, è come l’edera che torna a ricoprire di germogli chiari le mura delle città distrutte.