Gentile direttore,
il 19 marzo ricorre l’anniversario della morte del professor Marco Biagi, assassinato dai nuovi brigatisti rossi nel 2002, “colpevole” di aver segnalato quanto accade nei Paesi più avanzati in tema di diritto del lavoro. Nel 2001 nel “Libro Bianco sul mercato del lavoro”, ci spiegava che «i diritti dei lavoratori, si conquistano prima di tutto nel mercato, ma se le regole del mercato tolgono opportunità, invece di crearne, se costringono all’esilio le forze migliori, allora a pagarne il prezzo più alto sono proprio i lavoratori. Bisogna rompere quindi, la falsa equazione tra “flessibilità” del lavoro e diminuzione dei diritti dei lavoratori». Il mercato del lavoro, dalla riforma che porta il suo nome, è stato ampiamente riformato, ma strada facendo sono stati persi elementi che dovevano completare quella riforma. Ricordarlo oggi è un dovere e un segno di attenzione umana e civile. Non dobbiamo mai dimenticare l’esempio suo e di tutti quei servitori dello Stato che hanno perso la vita per mano dei terroristi. Queste morti violente ci devono far riflettere: in democrazia il dissenso politico o sociale non può mai giustificare violenze o addirittura omicidi. Oggi quindi, oltre il ricordo del professor Biagi, è necessario ricordare le storie di tutte le vittime di atti terroristici e dei loro familiari che ogni giorno devono sopportare il dolore della perdita dei propri cari a causa di questi insensati e ingiustificabili atti di violenza.
Andrea Zirilli
Mi associo al suo ricordo, gentile signor Zirilli. All’omaggio a tutte le vittime di atti terroristici e alla vicinanza ai loro familiari. Ricordo sempre che Marco Biagi seppe vedere l’urgenza di tutelare anche i non-garantiti in un “mercato” del lavoro che aveva già cominciato a mutare rapidamente e che non accennava affatto ad autoregolarsi nel segno dell’equità. Una visione lungimirante la sua, quella che nessun assassino e nessun fondamentalista (anche politico) ha mai. Rendere omaggio a Marco Biagi significa aver davanti a noi in modo esemplare il nostro dovere nelle prove, previste e impreviste, che segnano l’attuale «transizione » o, meglio, come dice il Papa, questo decisivo «cambiamento d’epoca» che dobbiamo interpretare e umanizzare.