Caro direttore,
secondo il ministro Speranza una persona, in presenza delle condizioni individuate dalla sentenza della Corte costituzionale 242/2019, ha il 'diritto' di chiedere a una struttura pubblica del servizio sanitario l’assistenza al suicidio medicalmente assistito. Non è così. Non se si ha riguardo al concetto proprio di diritto e alle funzioni della nostra Corte costituzionale. Quest’ultima «giudica sulle controversie relative alla legittimità costituzionale delle leggi» (art. 135 Cost.). Per tale ragione la sentenza sul noto caso Cappato si è limitata a dichiarare incostituzionale l’art. 580 del Codice penale, nella parte in cui sanziona chi aiuta a morire un soggetto che versa nella situazione indicata dalla Corte. Quindi non ha attribuito alcun 'diritto a morire'. Ciò è tanto più vero se si considera che 'diritto' è, secondo una nozione elementare, la facoltà di pretendere che altri agisca in un certo modo. Ma la sentenza, come precisa espressamente la Corte, «si limita ad escludere la punibilità dell’aiuto al suicidio nei casi considerati, senza creare alcun obbligo di procedere a tale aiuto in capo ai medici» (par. 6, in diritto). Ne discende che a oggi un paziente non può vantare alcuna pretesa eutanasica, né verso il medico né verso il Servizio sanitario nazionale. La questione, così delicata per il carico di sofferenze che grava su molti malati, andrebbe quindi trattata – con tutta l’attenzione che serve – dall’assemblea legislativa e non dalla Conferenza delle regioni.
Carlo Maria Cattaneo Gorla Minore (Va)
Sono perfettamente d’accordo con lei, gentile e caro amico. Tutti dovrebbero avere ben chiara la rigorosa architettura della sentenza della Corte costituzionale sul suicidio assistito. E nessuno dovrebbe dimenticare che le società che riducono le questioni di vita e di morte a materia di slogan e di circolari si avviano su strade pericolose e, infine, disastrose.