Le parole del Papa al Meeting: ma c'è un seme nella nostra storia
martedì 21 agosto 2018

«Le forze che muovono la storia sono le stesse che rendono l’uomo felice», disse don Giussani a un ragazzo, nel trascinante turbinio del ’68. È il titolo del Meeting 2018 – cinquant’anni dopo – e lo spunto del messaggio inviato al Meeting da Francesco tramite il cardinale Parolin. Cinquant’anni dopo quella svolta, riflette il Papa, quando «la rottura con il passato divenne l’imperativo categorico di una generazione che riponeva le proprie speranze in una rivoluzione delle strutture capace di assicurare maggiore autenticità di vita».

Che è rimasto, si chiede Francesco, di quel desiderio di cambiare tutto? A chi c’era, sia pure bambino, la domanda evoca il ricordo delle maree di giovani che percorrevano gridando, il pugno alzato, le strade, arginati dalla polizia in assetto antisommossa, spesso nei fumi dei lacrimogeni. Sembravano, quelle folle, a chi le guardava con occhi di bambino, quasi lo spirito di una storia nuova, che, davvero, avrebbe cambiato tutto.

E ora? Si tornano a erigere muri, commenta Francesco, cresce l’indifferenza, prevale la paura: «Ci domandiamo se in questo mezzo secolo il mondo sia diventato più abitabile». E aggiunge: l’interrogativo riguarda anche noi cristiani, che siamo passati attraverso la stagione del ’68. Riguarda quanti «fecero della fede un moralismo che, dando per scontata la Grazia, si affidava agli sforzi di realizzazione pratica di un mondo migliore». I bambini del ’68, i fratelli minori, che avevano immaginato di assistere a una rivoluzione, alla soglia dei sessant’anni guardano oggi a questa Italia in profonda crisi demografica, in cui cresce la xenofobia e minaccia di avvelenarci il razzismo, in cui la democrazia parlamentare pare quasi un’istituzione svuotata: e hanno un po’ di paura, sì, per i loro figli e nipoti, per il mondo in cui vivranno. Quasi ci attendesse una cesura, un crollo.

Francesco cita Hannah Arendt, che concretizza questi fantasmi: «È perfettamente concepibile che l’età moderna, cominciata con un così eccezionale e promettente rigoglio di attività umana, termini nella più mortale e nella più sterile passività che la storia abbia mai conosciuto». Allora avremmo ragione a lasciarci prendere dalla paura, ad adeguarci alla infecondità di un’epoca che non fa figli anche per un’indicibile ansia del futuro? Per un dubbio radicale: che il vivere, il continuare la storia, sia una cosa buona. Ma il Papa nel messaggio posa, come una pietra miliare, la domanda di San Benedetto nel Prologo alla Regola, domanda che già riecheggia nei Salmi: «Chi è l’uomo che vuole la vita e desidera vedere giorni felici?».

Chi salverà oggi questo desiderio che abita, pure confusamente, nel cuore dell’uomo?, si chiede Francesco. Rivedi le folle di ragazzi arrabbiati che sfilavano nel centro di Milano, tumulto di rivoluzione, promessa di un mondo diverso. Sarebbe facile cedere al cinismo. O magari chiudersi nella propria fede come in una torre d’avorio, per non contaminarsi con la realtà. Ma, quella domanda di San Benedetto, e prima ancora del Salmo, che risorge nei figli dei figli: «Chi è l’uomo che vuole la vita e desidera vedere giorni felici?».

Il cristiano, dice il Papa, non può rinunciare a desiderare che il mondo cambi. È ragionevole sognarlo, perché alla radice di questa certezza «c’è la convinzione profonda che Cristo è l’inizio del mondo nuovo». Cristo uomo, nato nella carne, forza che attraverso gli uomini muove la storia, come rispondeva Giussani a quel ragazzo. Al popolo del Meeting Francesco ricorda la Evangelii gaudium: «La sua risurrezione non è una cosa del passato; contiene una forza di vita che ha penetrato il mondo. Dove sembra che tutto sia morto, da ogni parte tornano ad apparire i germogli della risurrezione. È una forza senza uguali. [...] Nel mezzo dell’oscurità comincia sempre a sbocciare qualcosa di nuovo». C’è un seme nella storia. Dal fondo dei solchi più aridi, tenace, imprevisto, rinasce.

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