Nei pochi romanzi davvero grandissimi, i personaggi sfuggono di mano al loro autore e iniziano a vivere una esistenza libera. Nei libri medi e piccoli l’autore è il dio delle sue creature, è l’artigiano delle sue marionette che, inerti, eseguono perfettamente i comandi delle dita. Questi personaggi-burattini non insegnano nulla al loro scrittore e quindi insegnano poco anche a noi, perché le conclusioni del racconto sono già inscritte nelle sue intenzioni. Nei libri immensi, invece, il personaggio una volta messo al mondo esce dal libro, lascia la sua casa, inizia a correre libero e fa cose che il suo autore né voleva né pensava. Qui l’autore presta la penna a un daimon, e le sue creature diverse continuano a vivere, crescono, muoiono e risorgono molte volte, e fanno risorgere anche il loro autore, richiamato alla vita dal grido: “Vieni fuori!”.
Le avventure di Pinocchio sono uno di questi libri grandissimi, morti e risorti molte volte. Pinocchio è uno di questi personaggi liberati, diventati più grandi del suo autore. In Pinocchio c’è molto di Carlo Collodi, ma non c’è soltanto Collodi. Perché ciò che Collodi fa vivere a Geppetto – non riesce a tenere a casa il burattino che ha appena creato, e che scalcia, sgambetta, scappa, fa cose che l’artefice non immaginava né voleva – lo ha vissuto lui stesso con questo suo libro. Il burattino è scappato di mano al burattinaio. La virtù di Collodi sta però nell’aver desiderato che i suoi personaggi fossero diversi da lui. Così scrive nella nota introduttiva al suo Occhi e Nasi, un libro di racconti uscito nel 1881, solo pochi mesi prima della prima puntata di Pinocchio: «L’ho chiamato così, occhi e nasi, per fare intendere che non è una mostra di figurine intere... che il lettore li finisca da sé». In questo “scarto” tra Pinocchio e Collodi è nato il capolavoro, e quel terreno libero e liberato ha saputo generare le interpretazioni più disparate, incluse quelle, ardite, che vi hanno visto una sorta di versione laica della storia cristiana della salvezza (Biffi e Nembrini). La qualità di un’opera d’arte si misura anche dalla sua capacità di dire cose che l’autore non pensava, non voleva, o persino detestava.
Ho incontrato Pinocchio più volte nella mia vita. L’ultima lettura adulta mi ha sconvolto e commosso. Ho capito che Pinocchio è innanzitutto un libro bellissimo. Poi ho anche capito che Le avventure di Pinocchio sono soprattutto un libro sulla libertà, sulla vita come avventura, in particolare sulla libertà dei ragazzi, necessaria eppure negata loro dal mondo degli adulti. Geppetto intaglia il suo pezzo di legno con l’intenzione esplicita di farne un burattino, ma a un certo punto, e molto presto, inizia a chiamarlo “figliolo”. Il primo messaggio immediato del libro è dunque chiaro e sconvolgente: in quella società italiana di metà Ottocento, che stava cercando di “fare gli italiani” sulla base di una pedagogia illuminista e razionalista, i ragazzi erano trattati come burattini: legni di scorza dura e selvaggia che grazie all’educazione diventeranno un giorno buoni cittadini. Pinocchio fugge da un mondo di babbi e di maestri che cercano, con molti sacrifici e impegno, di costruire tenacemente figli-burattini, di raddrizzare con l’educazione e le regole quel «legno storto» (Qoelet 1,15). Ma Pinocchio ha una resilienza straordinaria all’educazione dei grandi e vive la sua libertà brada, irresponsabile, ingenua, rischiosa, imprudentissima e stupenda. In una società che fabbricava i nuovi italiani come gli artigiani fabbricano mobili («per farne una gamba di tavolino»), Collodi scrive un libro sulla resistenza dei ragazzi all’azione educativa della società. Pinocchio non vuole andare a scuola, tantomeno vuole lavorare, e quindi corre e scappa dai soli luoghi dove un ragazzo per bene doveva stare; impara la vita sulla strada (qui c’è una vera analogia con l’umanesimo biblico), dove fa esperienze straordinarie, dove apprende il mestiere del vivere – Pinocchio ha quattro piedi (due bruciati e due rifatti) ma non ha orecchi: «Nella furia di scolpirlo si era dimenticato di farglieli».
Pinocchio è allora un inno stupendo e tenace alla libertà dei ragazzi, e quindi è anche un canto alla paternità intesa come dolorosa e necessaria perdita di controllo sui figli, che per non diventare burattini devono andar via di casa. Pinocchio è allora la continua lotta tra il ragazzo e il burattino. Pinocchio non sta allora dicendo ai suoi lettori: “Ragazzi, tornate a casa, siate bravi e buoni”; no, dice piuttosto il contrario: “Restate ragazzi più a lungo possibile, resistete e fuggite dagli adulti che vogliono negarvi la vostra irriducibile libertà: il vostro legno storto è bellissimo”. «Chi è che ha cancellato i bambini dalla faccia della terra?» (Occhi e nasi). E così leggiamo senza pregiudizi Pinocchio e ci accorgiamo che Pinocchio è in perenne fuga dal posto al mondo che i grandi – Geppetto, Mangiafoco, la fata... – avevano pensato per lui.
La critica sarcastica di Collodi alle ipocrisie del suo mondo neo-borghese raggiunse il culmine con Pinocchio, «una bambinata», come la definì, un racconto per ragazzi quindi esentato dalla prudente riflessione filosofico-pedagogica – i libri pensati per i ragazzi hanno la caratteristica di liberare anche i loro autori dalle virtù dei loro saggi e romanzi seri, perché scrivendo per il mondo incantato dei fanciulli riescono, ogni tanto, a tornare liberi. E così la critica superò il critico, e nacque quel capolavoro che ci ama da centoquarant’anni.
In una società che enfatizzava la natura socievole dell’uomo, Pinocchio è poi un ragazzo solo: i suoi amici sono animali (e sono stupendi), burattini, Lucignolo, con i quali non fa attività sociali, non svolge azioni collettive. È un essere tremendamente solo anche nei momenti decisivi della sua storia, inclusa la sua morte, impiccato, in quella che doveva essere la fine della prima versione della storia (cap. 15): «Oh babbo mio, se tu fossi qui», ma il suo babbo non c’era – e questa assenza del padre è la differenza decisiva tra la morte di Gesù e la “morte” di Pinocchio. E così ci ricorda che i ragazzi sono molto più soli di quanto gli adulti, in genere, credano.
Nel mondo di Collodi esistevano i bambini e gli uomini, non c’era una terra di mezzo. Pinocchio non è più bambino ma non è ancora adulto: «Per uomo gli manca qualcosa, e per ragazzo c’è qualche cosa più del bisogno» (Occhi e nasi). Pinocchio ha inventato l’adolescenza, che è l’età delle fughe e delle corse a perdifiato, quando si torna a casa felici e poi si riparte ancora più felici. La vicinanza tra Pinocchio e il “figliol prodigo” del Vangelo di Luca va trovata nel partire dalla casa del suo babbo non nel tornare, o nel letterario “fratello minore” del figliol prodigo (di André Gide) che nella notte del banchetto per festeggiare il ritorno mette i calzari, saluta il fratello appena tornato e parte per cercare quella libertà che il fratello non era riuscito a conquistare. Collodi sta tutto dalla parte di Pinocchio, e ci sta sempre, anche quando fa le sue molte monellerie, perché cedere alle tentazioni è componente costitutiva dell’adolescenza: quale ragazzo non avrebbe seguito Lucignolo nel Paese dei balocchi? Si diventa bene grandi non tanto resistendo alle tentazioni ma imparando dagli errori, per poi riprendere la corsa – resistere alle tentazioni, dopo averle chiamate per nome, è invece il mestiere essenziale della vita adulta. In Pinocchio abbiamo allora l’intreccio, non risolto e per questo sempre vitale, tra l’Ulisse di Omero e l’Ulisse di Dante, cioè tra la nostalgia del ritorno a casa e l’irrefrenabile pulsione di lasciarla appena tornato; e nel fiorentino Collodi, Dante vince su Omero. Pinocchio corre sempre, e a noi che lo guardiamo in questo suo gesto non ci viene da dirgli: “Torna a casa”, ma: “Continua la tua corsa libera”.
In Pinocchio l’economia è molto importante. Collodi era un osservatore attento e molto critico nei confronti dell’ideologia che il lavoro (magari negli opifici) fosse la soluzione alla miseria di massa nell’età industriale e al vagabondaggio dei ragazzi, una società dove i poveri finivano troppo spesso in galera. In Occhi e nasi, nel racconto “Il ragazzo di strada”, scriverà: «L’uomo che lavora non è fatto a immagine e similitudine di Dio: perché Dio lavorò appena sette [sei] giorni e sono oramai seimila anni che si riposa».
Senza la povertà, la fame, il lavoro, il denaro, non si coglie l’essenza delle avventure di Pinocchio – e per questa ragione il Pinocchio di Disney (1940), ambientato in un bel villaggio nordico senza povertà, è un tradimento di Collodi. Il nome del protagonista dice invece già tutto: «Lo voglio chiamar Pinocchio. Questo nome gli porterà fortuna. Ho conosciuto una famiglia intera di Pinocchi: Pinocchio il padre, Pinocchia la madre e Pinocchi i ragazzi, e tutti se la passavano bene. Il più ricco di loro chiedeva l’elemosina». La casa di Geppetto è un’icona di povertà assoluta, dove il fuoco e la pentola sono solo dipinti sul muro. Pinocchio ha sempre fame, cerca sempre cibo, e raramente lo trova. Senza la miseria e la fame non si capisce neanche il senso del lavoro e del lavorare in Pinocchio: «Che mestiere fa tuo padre?», gli chiede Mangiafoco – «Il povero», gli rispose Pinocchio. Geppetto lavorava, ma era un povero: lavorare non lo liberava dalla povertà né dalla fame. Diversamente dall’ideologia del suo (e nostro) tempo, che pensava e pensa che il lavoro avrebbe sconfitto la miseria e la fame, Geppetto lavora ma è radicalmente povero. Collodi sapeva che non basta lavorare per non essere poveri, e la realtà di questi anni ce lo sta ricordando con grande forza, anche se noi continuiamo a invocare un lavoro astratto per condannare come maledetti i poveri concreti.
Pinocchio ha un pessimo rapporto con il denaro, è all’origine delle pagine disgraziate della sua storia – lo vedremo nelle prossime settimane. Non lavora e non vuole lavorare. Inizierà a lavorare solo alla fine, quando, novello Enea, avrà salvato il padre dal pescecane mettendoselo sulle spalle. Lavorerà perché non sarà più un ragazzo. I ragazzi non si mettono i babbi sulle spalle; le spalle dei loro babbi sono invece il loro luogo preferito da dove guardare il grande mondo, e prepararsi a spiccare il loro volo libero.
E soprattutto devono star lontani da denaro e lavoro, e quando gli adulti glieli propongono devono solo scappare, correre, e non fermarsi più.
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