Una delle illusioni di questi ultimi tempi di cultura capitalistica è pensare che il denaro e gli incentivi economici possano comprare quasi tutto, certamente le cose più importanti. Le civiltà premoderne erano dominate dalle passioni. L’interesse economico, che è sempre esistito, svolgeva un ruolo importante ma non era decisivo, perché erano le passioni a governare il mondo e quelle più importanti non conoscevano conversione in moneta. Le passioni, cioè l’onore, il rispetto, la fama, la rabbia, la vendetta non avevano nel mondo di ieri equivalenti monetari. L’avvento della società di mercato ha portato con sé la promessa-utopia di ridurre tutte le passioni agli interessi economici, sperando di assegnare a ogni sentimento umano un valore monetario corrispondente.
Forse il principale carattere della modernità è proprio questa trasformazione delle passioni in interessi, una trasformazione che, come ci ha insegnato il grande economista Albert Hirschman (nel 1977), ha qualcosa di desiderabile. Perché mentre le passioni, non essendo razionali, possono essere devastanti per il singolo e per le comunità, gli interessi sono meno pericolosi, perché prevedibili e calcolabili. Se ho buone ragioni per credere che la mia controparte si comporterà seguendo i suoi interessi, posso facilmente prevedere le sue mosse e contromosse. Con l’orgoglio, la vendetta, l’onore, non sappiamo invece fare i conti, soprattutto con gli effetti delle passioni degli altri. Forse una delle grandi difficoltà che sta incontrando la Nato nel gestire e prevedere gli sviluppi della guerra in Ucraina sta nell’aver sottovalutato la forza che le passioni hanno ancora nella società russa, illudendoci che gli interessi economici avessero lì la natura e forza che hanno nella nostra società capitalista.
Ma torniamo a Shakespeare, là dove lo abbiamo lasciato domenica scorsa. Dopo il contratto carnale siglato tra i due mercanti, con la bizzarra penale di una libbra di carne del debitore, nel Mercante di Venezia accade l’imponderabile: tutte le navi del debitore, Antonio, fanno naufragio. E così, passati i tre mesi previsti dal contratto, questi non è in condizione di onorare il suo debito di 3.000 ducati. Shyloch, il creditore ebreo, chiede l’esecuzione della penale, di fronte al Doge di Venezia. Bassanio, l’amico scialacquatore per il quale Antonio si era indebitato, entra in profonda crisi per la sventura dell’amico, si confida con la sua promessa sposa Porzia, e questa gli chiede: «Che somma deve all’ebreo?», tremila ducati, risponde Bassanio. «Nient’altro? Dategliene seimila, ed estinguete l’obbligazione. Raddoppiateli, triplicateli».
Anche Porzia, sebbene abitante nella medioevale Belmonte, si muove in un mondo dove il denaro compra tutto. Ma, paradossalmente, questo non è il mondo del banchiere Shyloch. Infatti, elemento cruciale, la penale da lui chiesta ad Antonio non era in denaro, ma in carne. Quindi, tecnicamente, il suo non era un contratto d’usura, non aveva voluto che il denaro prestato producesse altro denaro. Shyloch poi rifiuta che la carne venga commutata in denaro: «Shyloch ti si offre tre volte quel denaro» (Porzia). «Ho giurato, ho giurato al cielo: dovrò commettere uno spergiuro?». Shyloch vuole soltanto la libbra di carne: «Che ci guadagnerei io esigendo ch’egli adempiesse la condizione pattuita? Una libbra di carne d’un uomo non vale una libbra di carne di montone, di bue, o di capra».
Il mondo di Shyloch era dunque più vicino a quello cavalleresco e feudale di Belmonte che a quello commerciale e moderno di Venezia dove tutto stava per diventare monetizzatile. Porzia, donna del mondo antico, con la sua offerta di moltiplicare il denaro per estinguere la penale di carne, si mostra in realtà una donna del nuovo mondo (senza l’ambivalenza dei suoi personaggi non capiamo né il Mercante di Venezia né Shakespeare). Allora Shyloch per alcuni tratti sta dalla parte di Venezia e dei suoi commerci sempre meno legati alla morale e alla religione, ma per altri decisivi tratti del carattere sta ancora nel mondo medioevale, dove non tutto può (e deve) essere tramutato in denaro.
È questo intreccio multidimensionale di moderno e antico, cristiani e ebrei, religione e laicità, che fa bellissimo e super attuale il Mercante di Venezia: «Se siamo come voi in tutto il resto, vi somiglieremo anche in questo. Se un ebreo fa un torto a un cristiano, che fa il mite cristiano? Vendetta! E se un cristiano fa un torto a un ebreo, che farà, seguendo l’esempio cristiano, l’ebreo paziente? Vendetta! Metterò in pratica la malvagità che mi insegnate, e sarà difficile che non faccia meglio dei miei maestri» (Shyloch). C’è poi un secondo aspetto importante. Porzia si presenta al processo travestita da giovane principe del foro, ed esordisce affermando che il contratto con quella penale carnale era legittimo: «la causa da voi intentata è strana, ma regolare, la legge veneziana non può impedirvi di procedere». Anche Antonio aveva riconosciuto l’impossibilità di annullare quel contratto: «Il Doge non può impedire il corso della legge: se i privilegi commerciali che gli stranieri hanno a Venezia fossero sconfessati, ne sarebbe screditata la giustizia dello Stato, che ha commerci e profitti con tutte le nazioni». Quindi quel contratto consensuale è valido. In realtà un contratto con una penale di carne umana è un contratto nullo per oggetto illecito - lo sarebbe oggi (art. 1346 CC), e lo era anche ieri per il diritto romano.
Celebre, infatti, è la frase di Ulpiano, contenuta nei Digesta: «Nessuno può essere considerato proprietario delle sue stesse membra» (Dig, 9.II.13). Il diritto romano ed europeo era infatti fondato sulla distinzione tra persone e cose: le cose potevano essere alienate, le persone e il loro corpo no. Questa regola veniva meno nel caso degli schiavi, che erano assimilati alle cose, e in quanto tali comprati, venduti, non di rado uccisi dal loro proprietario (con o senza una giusta causa) - e se Shakespeare, tra i tanti messaggi impliciti, ci stesse dicendo che i debitori insolventi sono i nuovi schiavi del nuovo capitalismo? Perché allora considerare quel contratto legittimo? In quella non-nullità Shakespeare si sta mostrando profeta del mondo che stava nascendo nella sua Londra di fine Cinquecento, che diventerà più tardi il capitalismo. La religione del profitto pretende che il consenso e l’accordo reciproco siano i soli nuovi dogmi della società commerciale, nessun ostacolo deve inframmettersi tra le due volontà.
Eccoci così condotti direttamente alla soluzione del dilemma e alla conclusione della commedia. Porzia ricorre a un cavillo giuridico: Shyloch ha vinto la causa, e quindi può legittimamente prelevare da Antonio la libbra di carne. Ma, aggiunge Porzia, «c’è qualcos’altro. Questa obbligazione [bond] non ti dà una goccia di sangue, dice espressamente “una libbra di carne”. Shyloch dovrà dunque prelevare col coltello quella carne senza far uscire da Antonio neanche una goccia di sangue. Una evidente impossibilità pratica, sulla base della quale Porzia afferma che l’intenzione di Shyloch nascosta dietro quella penale era la morte di Antonio: «Hai tramato contro la vita dell’imputato». E quindi condanna Shyloch a donare metà di tutte le sue sostanza a Venezia e la restante metà ad Antonio. Il Doge gli risparmia la vita, ma lo obbliga a «farsi cristiano». L’usuraio è sconfitto e rovinato grazie a un cavillo giuridico. Gli stessi cavilli giuridici usati in quel tempo da moralisti, giuristi e teologi cristiani in materia di usura, per condannare gli ebrei e assolvere i banchieri e i mercanti cristiani (lucro cessante, danno emergente, interesse “dal” mutuo e interesse “per” il mutuo, lettere di cambio, commende, contratti di assicurazione etc etc.). L’etica vincente nel Mercante non è quella del capitalismo riformato e calvinista del lavoro come vocazione (beruf), ma quella ereditata a Londra da una Italia mercantile ormai decadente: “Inglese italianato è un diavolo incarnato” (proverbio citato da Roger Ascham, precettore della Regina Elisabetta).
Chi vince la causa è dunque il proto-capitalismo veneziano e londinese con la sua ipocrisia, che condannava gli ebrei per usura e assolveva se stesso per reati ancora più gravi. Porzia aveva invocato la misericordia (mercy) di Shyloch nei confronti di Antonio: «Allora l’ebreo deve essere misericordioso». Shyloch risponde: «E mi costringete a esserlo?». Porzia: «La misericordia ha questa qualità, non può essere forzata [strained]». Quel mondo cristiano chiedeva all’ebreo di praticare la misericordia, ma poi era spietato con lo stesso Shyloch, che obbligava addirittura a battezzarsi - la mercy non può essere forzata, ma il battesimo sì.
Shyloch è dunque uno sconfitto, ma con armi morali improprie. A quel nuovo mondo commerciale ormai l’usura di Shyloch non serve più: ha sviluppato tutti i meccanismi ipocriti interni alla cultura e anche alla teologia cristiana che gli consentono di procurarsi prestiti senza incorrere in reati né religiosi né giuridici. Shyloch è una delle vittime di quel nuovo mondo spietato che stava avanzando velocemente in Europa: è forse lui la vittima principale del Mercante.
Un indizio decisivo a sostegno di questi ipotesi lo troviamo, anche qui, in un esplicito riferimento alla Bibbia presente nell’opera. Infatti, quando nel processo entra in scena Porzia travestita da avvocato il suo nome è Balthasar. E le parole che Shyloch pronuncia all’udire Porzia-Balthasar sono: «Un Daniele, un secondo Daniele venuto a far giustizia». Balthasar, infatti, è il nome babilonese del profeta Daniele (Dan 1,7). Il solo luogo dove nella Bibbia Daniele-Balthasar assume la funzione di giudice giusto è nell’episodio di Susanna, accusata da due vecchi che volevano violentarla con l’inganno, che Daniele riesce a liberare da un processo ingiusto (Dan 13). Shyloch, quindi, ci viene presentato da Shakespeare come una nuova Susanna che attende che giustizia sia fatta; va inoltre notato che il capitolo 13 su Susanna è considerato solo dal canone cristiano non da quello ebreo, a sottolineare che i destinatari di questi messaggi etici impliciti ma forti erano i cristiani, non gli ebrei.Il ruolo di Shyloch nell’opera è soprattutto quello di far emergere le contraddizioni interne al nuovo che avanzava, che per certi versi era ancora molto vecchio (Belmonte non era troppo diversa da Venezia), e che nelle sue componenti nuove appariva più spiegato e ingiusto del vecchio mondo. Dove sono oggi i nuovi Shakespeare a svelare le contraddizioni, le ipocrisie, le vittime del nostro mondo, che non è troppo diverso da quello del Mercante di Venezia, nei suoi interessi e nelle sue passioni?
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