L’emergere progressivo dell’etica mercantile nel Medioevo europeo fu qualcosa di molto più complesso della semplice laicizzazione dell’antica etica religiosa. Il processo che dall’economia di mercato medioevale condusse al capitalismo non è stato lineare, ha conosciuto interruzioni, deviazioni e salti. Il mercante medioevale era prima medioevale poi mercante. Sulle rotte commerciali europee insieme a clienti e fornitori incontrava anche demoni, spiriti e santi, e mentre si arricchiva sulla terra la sua mente era rivolta al cielo. Abitanti per vocazione e in ogni stagione delle "terre di mezzo", quei mercanti erano insieme uomini del loro tempo e uomini fuori tempo, radicati nella loro età eppure anticipatori di tempi nuovi. Come tutti gli innovatori si muovevano tra il già e il non-ancora, ultimi rappresentanti di un mondo e i primi di un altro che ancora non c’era. Stavano sul crinale del tempo, e da lì riuscivano a guardare più lontano, ancorati nel presente speculavano sul futuro. La prima e più importante comunità nella quale vivevano non era la societas mercatorum ma la comunità cristiana, la prima legge non era la lex mercatoria ma quella della Chiesa. Sulle loro ricchezze gravava veramente un’ipoteca sociale, che era un fuoco spirituale che riscaldava i denari che scottavano nelle loro mani se non li condividevano con la comunità.
Leggiamo in uno dei primi libri sulla mercatura: «Quello che dee avere in sé il vero e diritto mercatante: Dirittura sempre usando gli conviene, lunga provvidenza gli sta bene, e ciò che promette non venga mancante... La Chiesa usare e per Dio donare. Usura e gioco di zara [azzardo] vietare, scrivere bene la ragione e non errare. Amen» (Francesco Balducci Pegolotti, "La pratica della mercatura", 1340 ca., p. xxiv). "Il vero e diritto mercante" viveva dunque di un intreccio di pratiche commerciali e di timor di Dio, di ragione economica e ragione teologica, di etica della colpa e di etica della vergogna. La ricerca della felicità individuale non aveva senso se non era preceduta, ordinata e bilanciata dalla ricerca della felicitas publica. Quella cara ai romani, che si incontrò con la teologia cristiana della comunità come corpo di Cristo, e quindi col la filosofia del Bene comune. La ricerca della felicità pubblica era una ricerca diretta, intenzionale, che si concretizzava rinunciando a parti e dimensioni notevoli dei beni privati (non il 2% dei profitti...) per poter realizzare beni comuni. Siamo quindi sul lato opposto della filosofia moderna della "mano invisibile", secondo cui la ricchezza pubblica nasce, indirettamente, dalla ricerca individuale della ricchezza privata. Nell’umanesimo medioevale il bene comune nasceva sottraendo risorse dai beni privati, nel capitalismo nascerà sommando gli interessi privati (maggiore è il mio bene, maggiore sarà il bene comune).
Quando allora con il secondo millennio iniziò a svilupparsi nel Sud dell’Europa un nuovo spirito economico, quello spirito era certamente nuovo ma non era ancora lo spirito capitalistico, se è vero che quest’ultimo consiste nel guardare «la ricchezza come il mezzo più idoneo per una sempre migliore soddisfazione di tutti i bisogni possibili» (Amintore Fanfani, "Cattolicesimo e protestantesimo nella formazione storica del capitalismo", 1934, pp. 15-16). La ricchezza era molto presente nella Firenze del Duecento e del Quattrocento, ma non soddisfaceva tutti i bisogni; non dava la stima sociale, la pace interiore, né il paradiso: o meglio, la ricchezza soddisfaceva anche (parte di) questi bisogni nel momento in cui, donandola, i ricchi se ne liberavano. Non dobbiamo dimenticare che per tutto l’ultimo Medioevo l’influenza francescana, domenicana e degli ordini religiosi sulla vita economica e civile fu grande, a tratti grandissima. Le piazze e le fiere erano popolate da frati e monaci che con la sola presenza ricordavano ai mercanti l’inferno e il purgatorio; erano i loro confessori, consiglieri e assistenti spirituali, i predicatori erano delle figure imponenti che non lasciavano indifferenti gli uomini d’affari - forse solo i predicatori quaresimali impressionavano la gente più della ricchezza e bellezza dei grandi mercanti. Le nuove ricchezze mercantili erano inserite in un contesto religioso e culturale che lodava la povertà. I francescani e i domenicani avevano davvero cambiato il mondo, in un modo e con una forza che noi non riusciamo più neanche a immaginare. Grazie a loro, l’ideale cristiano era la povertà evangelica, non la ricchezza. Lo era per i frati e per le suore, ma anche per i laici, molti dei quali inseriti nei loro Terz’ordini.
Nei Paesi latini la ricchezza era buona solo se condivisa, solo se diventava anche ricchezza pubblica, perché il centro della vita civile continuò a essere la comunità. Nel Medioevo latino la ricchezza si condivideva con le donazioni e i testamenti, nella modernità latina lo si farà con lo Stato sociale. Il notaio ser Lapo Mazzei scriveva così al ricchissimo mercante Francesco di Marco Datini: «Dodici frati, con uno loro maggiore (si dice santa persona), vedendo che in Siena e pe’ paesi non si osservava la Regola di Santo Agostino, si partirono di Siena, e sono stati là presso, a certo povero luogo in un bosco, a vivere secondo la Regola, poveramente; ... vi pregano, che vi piaccia avvisarvi che in costà, in poggio o in piano, fosse nulla per loro; perché il semprice pane basterebbe loro, con poco aiuto» ("Lettere di un notaro ad un mercante", 1880, vol. 2, p. 132). Mazzei in questa e in molte altre lettere chiede al suo "padre" (così lo chiama) di aiutare economicamente conventi, monasteri, private famiglie, di comprare oggetti sacri, e alla fine della vita gli fa scrivere nel 1410 un nuovo testamento dove lascia (quasi) tutta la sua straordinaria ricchezza al "Ceppo dei poveri" di Prato. In un’altra lettera, Mazzei ammaestra il suo mercante sulle ricchezze vere: «Coloro che sono certamente disordinati, e ignoranti qual sia la ricchezza dell’uomo, come ciechi credono che ricchezza sia possedere assai beni acquistati a qualunche modo. Costoro, come falsi istimatori, chiamano il bene male e ’l male bene» (p. 154). Mazzei era un laico, eppure per Datini fu un vero accompagnatore spirituale, attore primo della sua conversione. La fede era cultura, non era solo una faccenda religiosa - il medioevo fu molto più laico di quanto possiamo immaginare, anche dentro i monasteri e i conventi. E la beata suor Chiara Gambacorti, domenicana, così scrive sempre a Datini: «Noi sian povere; e sì come povere, per amore di Cristo vi ci raccomandiamo, che in questo nostro bisogno voi ci sovente di farci quello aiuto che Dio vi ispira» (p. 319).
Da queste lettere emerge una dimensione essenziale del rapporto tra ricchezza e povertà in quell’umanesimo. La povertà scelta delle suore, che le mette in una condizione necessaria di soccorso, crea nei ricchi l’obbligo morale di soccorrerle, che svolgeva anche una funzione ridistribuiva della ricchezza, rendendola buona. Un mutuo vantaggio al centro del patto civile che reggeva l’impianto etico del medioevo, che ha fatto splendide le sue chiese e città, che ci fanno ancora vivere. Un poeta, ingiustamente incarcerato, nel chiedere un prestito (non elemosina) a Datini, così gli scrive: «Di niuna cosa mi vergogno meno che d’esser povero» (Jacopo del Pecora, p. 345). Della povertà, in quel mondo, non ci si vergognava; della miseria sì, ma della povertà evangelica no, perché era imitazione di Cristo (e dei loro santi), e capirlo era un privilegio morale.
I mercanti c’erano sempre stati in Europa, fin dall’Impero romano; ma i pochi grandi mercanti del Duecento erano diversi. Operavano sui mercati internazionali, conoscevano i Paesi del mondo, erano ricchissimi, spettacolari, e soprattutto facevano ricche e meravigliose le loro città. Erano ricchi ma non erano ancora capitalisti, perché erano abitati da uno spirito ancora medioevale: «Per il precapitalista, non solo si deve operare una discriminazione tra mezzi leciti e mezzi illeciti per l’acquisto della ricchezza (cosa che avviene, con altro metro, anche per il capitalista), ma si deve operare una discriminazione tra intensità lecita e intensità illecita nell’uso di mezzi leciti. La morale per il precapitalista non solo condanna il mezzo illecito, ma limita anche l’uso di quello lecito» (Fanfani, p. 18). La morale economica pre-capitalistica si muoveva in uno spazio segnato da due assi pre-cartesiani: la liceità e l’intensità. Due assi legati tra di loro, perché l’evoluzione a partire dal XIII secolo della liceità dell’interesse e del profitto ebbe conseguenze anche sul terreno dell’intensità (se si rende legittimo, entro certi limiti, il far denaro col denaro, indirettamente si conferisce anche uno statuto etico più positivo alla ricchezza in sé). Con la nascita dello spirito capitalistico venne meno il secondo asse (l’intensità) e restò solo l’asse del lecito-illecito, sempre più definito dalle leggi degli Stati e sempre meno dalla religione. L’intensità non fu più sottoposta al giudizio di liceità, e nel contesto protestante la ricchezza divenne un indicatore di benedizione da parte di Dio. Eccoci dentro l’etica del capitalismo. Fu allora un cambiamento radicale dello spirito nei confronti della ricchezza che creò il capitalismo, quando, improvvisamente, l’arricchimento individuale divenne benedizione.
La domanda sempre attuale, sebbene non nuova, diventa: lo spirito del capitalismo moderno fu uno sviluppo dello spirito economico dei mercanti medioevali, o ne fu un tradimento? Il Dna dei Bardi e dei Datini era lo stesso di quello dei Rockfeller e dei Bill Gates? O forse è avvenuto un salto di specie? La scuola economica cattolica, che dal Toniolo giunge fino a Barbieri passando per Fanfani, ha letto la nascita del capitalismo e quindi il cambiamento di spirito economico nel passaggio dal Medioevo alla Modernità, come declino e decadimento morale dello spirito economico: «La Riforma mentre col suo spirito informativo scioglieva le briglie dei subiti e meno onesti guadagni, informava e scuoteva la tradizione scientifica cattolica e la legislazione canonica, strappando di mano alla Chiesa la disciplina morale dei rapporti economici, che sempre aveva rivolta a tenere alto l’uomo di fronte al capitale. Dal quel momento comincia l’evoluzione non più contrappesata dell’economia capitalistica» (Giuseppe Toniolo, "L’economia capitalistica moderna", 1893, p. 221). Pur con alcuni distinguo tra un autore e un altro, questi studiosi cattolici leggono il capitalismo moderno come tradimento dell’umanesimo tardo medioevale. La cultura dominante nel Novecento ha considerato questa lettura "cattolica" arretrata e tutto sommato sbagliata. Ma un capitalismo non più "contrappesato" che sta deteriorando il pianeta e aumentando le diseguaglianze, non dovrebbe farci riaprire una nuova stagione di critica dello spirito del capitalismo?
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(12 - continua)