Il settimo giorno è un giorno in cui è considerato un sacrilegio maneggiare soldi. Il settimo giorno è l’esodo della tensione, la liberazione dell’uomo dal suo stesso fango, il suo insediamento quale sovrano del tempo. Questo è shabbat: la vera felicità dell’universo
Abraham J. Heschel, Shabbat
Siamo arrivati alla fine di Oikonomia. Siamo partiti con la metafora del cuculo e siamo arrivati, domenica scorsa, ai sacrifici, passando per Agostino, Pelagio, il monachesimo, Francesco, le reliquie, i pellegrinaggi, lo spirito nordico protestante del capitalismo e quello meridiano e cattolico. Abbiamo iniziato in gennaio quando ancora questo morbo che ci affligge sembrava molto lontano, oggi terminiamo in un mondo e con vite completamente cambiati dalla pandemia. Siamo dentro un grande combattimento collettivo, custodendo la speranza che questo corpo–a–corpo somigli a quello tra Giacobbe e l’Angelo, che anche noi ci ritroveremo all’alba con una ferita insieme a una benedizione e a un nome nuovo. I segnali perché questa speranza non sia vana ci sono.
Stiamo vivendo una Quaresima civile che accumuna tutti, e, anche se non ce ne siamo ancora accorti, siamo dentro la più grande esperienza religiosa collettiva dalla Seconda guerra mondiale. Le code ordinate ai supermercati sembrano processioni, in quelle file si sente una solennità che le rende simili alle file per ricevere il pane eucaristico, di cui hanno preso il posto. Molti, mentre attendono l’esito del tampone del papà, si sono ricordati dell’unica preghiera ormai dimenticata e dopo decenni l’hanno recitata. Le grandi crisi fanno risorgere le preghiere dell’infanzia, e finalmente le capiamo – «Dacci oggi il nostro pane quotidiano».
Non stanno arrivando da noi missionari cinesi per evangelizzarci, come auspicava più di mezzo secolo fa don Lorenzo Milani; ma quando vediamo arrivare medici e infermieri cinesi e cubani, sentiamo che qualcosa di quella profezia si sta avverando: «EÌ€ stato l’amore dell’“ordine” che ci ha accecato... Sulla soglia del disordine estremo mandiamo a voi quest’ultima nostra debole scusa... Non abbiamo odiato i poveri come la storia dirà di noi. Abbiamo solo dormito».
In queste settimane l’economia è tornata oikonomia: il governo della casa. È uscita dal regno tecnico degli economisti per diventare lavoro, disperazione e speranza. Nelle grandi crisi davanti all’impotenza e nudità degli esperti, il popolo si riappropria delle grandi parole della vita.
Siamo partiti con delle domande sulla natura dello spirito del capitalismo, e puntata dopo puntata, abbiamo capito che di evangelico nella nostra economia è entrato davvero poco. In particolare c’è poco di cristiano nell’idea che la ricchezza sia benedizione da parte di Dio (e che la povertà sia maledizione). Perché la visione dei beni come bene–dizione, che pur c’è nella Bibbia, è sempre completata, ridimensionata e corretta dalla critica della ricchezza che troviamo forte nelle sue tradizioni profetiche e sapienziali. Nessuna teologia biblica della ricchezza è corretta senza il libro di Giobbe e senza i profeti che, come un sol coro, ripetono che la verità non coincide con il successo in nessuna delle sue forme (ricchezza, salute, fama, vittoria).
La visione della ricchezza e povertà di Gesù di Nazareth è eredità diretta della linea profetico–sapienziale della Bibbia. Nelle sue parole e in quelle del Nuovo Testamento non si trovano riferimenti alla ricchezza come segno di benedizione del Padre. Anche se qualcuno, di tanto in tanto, prende la parabola dei talenti per sostenere la presenza di un’etica capitalistica all’interno dei Vangeli. Un’operazione davvero improbabile, se si pensa che in quella parabola di Matteo (e in quella gemella di Luca delle “mine”) l’uso del linguaggio monetario (talenti) è puramente allegorico, perché il messaggio della parabola è un invito a trafficare il Vangelo ricevuto, rivolto a una Chiesa che rischiava di impigrirsi in attesa del ritorno del Signore. Resta poi tutto da approfondire, perché non ovvio, come operi il parallelismo tra metafora e messaggio evangelico: non è affatto scontato identificare nel Padre o in Gesù quel “padrone duro” che affida i talenti ai suoi tre servi. Inoltre, per chi vuol fondare in questa parabola addirittura la meritocrazia, nel racconto di Matteo (25,14–30) i talenti vengono assegnati dal padrone secondo “le capacità di ciascuno”, smentendo così il primo dogma di ogni meritocrazia, cioè che il talento sia un merito – perché le “capacità” sono in massima parte dono, non merito, come è in gran parte dono l’impegno personale che mettiamo per custodire e accrescere le nostre capacità.
È talmente evidente che per Gesù di Nazareth la ricchezza non è segno di benedizione che nella pagina più profetica di tutto il Nuovo Testamento, chiama i poveri “beati” e annuncia “guai” ai ricchi. Nulla più dei guai è distante dall’idea di benedizione, guai che vanno letti insieme alla cruna dell’ago e a mammona.
La visione economica di Gesù è simile a quella di Isaia, di Geremia, di Ezechiele. Per Ezechiele, ad esempio, anche il mito del peccato dell’Adam è legato all’economia: «Tu eri un modello di perfezione, pieno di sapienza, perfetto in bellezza, in Eden, giardino di Dio». Finché «fu trovata in te l’iniquità. Accrescendo i tuoi commerci ti sei riempito di violenza e di peccati; io ti ho scacciato dal monte di Dio... Con la gravità dei tuoi delitti, con la disonestà del tuo commercio hai profanato i tuoi santuari» (28,12–18). Il “peccato originali” è peccato economico. Qui non c’è né donna né serpente: il logos sbagliato è quello della ricchezza. Furono i traffici sbagliati a “profanare i santuari”.
Soltanto nell’esilio di Babilonia, capitale dell’economia del tempo, Ezechiele poteva scrivere queste pagine sull’economia. Come soltanto in quello stesso esilio il Secondo Isaia, profeta anonimo fratello e compagno di sventura di Ezechiele, poteva udire e scrivere le parole meravigliose sull’uomo racchiuse in molti suoi versi. I canti estremi si intonano solo lungo i fiumi di Babilonia, nelle corsie della terapia intensiva, quando un altro uomo e qualche volta un altro Dio ci si svelano: «Una voce dice: “Grida”, e io rispondo: “Che cosa dovrò gridare?”. Ogni uomo è come l’erba e tutta la sua grazia è come un fiore del campo. Secca l’erba, il fiore appassisce quando soffia su di essi il vento del Signore. Veramente il popolo è come l’erba» (Is 40,6–7).
Sempre in quel lungo esilio, il popolo d’Israele comprese diversamente lo shabbat – il sabato. Non capiamo nulla dell’umanesimo biblico senza di esso. Forse Israele conosceva e praticava shabbat già prima della deportazione, ma certamente in quella lunga notte collettiva imparò il valore di una delle innovazioni religiose e sociali più grandi della storia. In quel digiuno di spazio, in una terra senza tempio e senza culto, quei deportati impararono un altro tempo – qualcosa di simile, ma più radicale ed estremo, di quanto avvenuto con l’invenzione del tempo liturgico nei monasteri, che tanto deve allo shabbat biblico. Si ritrovarono senza tempio e senza spazio sacro, e nacque il tempo sacro. Capirono il valore infinito del fermarsi, del sospendere, del limite, dell’uguaglianza e della fraternità cosmica. E capirono anche il senso e il posto del lavoro, che senza il fermarsi dello shabbat è solo schiavitù, ieri e oggi.
Il capitalismo non solo è incompatibile con lo shabbat: è l’anti–shabbat. Non si ferma, non sospende, non smette mai di lavorare, non conoscerebbe limite. Quando un impero non dava tregua, quando obbligava a lavorare sempre, quando ogni giorno passava identico a tutti gli altri, proprio lì, in quel tempo monotono e padrone, in mezzo a quel popolo antico e prigioniero fiorì il bisogno di un giorno diverso, che fosse ritmo e profezia di tutti gli altri giorni. Quel solo giorno diverso rese diverso tutto il tempo. Gli ebrei non hanno il paradiso perché è lo shabbat la loro vita eterna, quando tutto si ferma e l’orologio spietato della morte è sconfitto. È nell’esilio che si impara shabbat.
Chissà se questo nuovo esilio, se questa nuova “deportazione” dentro la nostra storia ci farà riscoprire il senso biblico dello shabbat. Se il cristianesimo ha voluto includere l’Antico Testamento nel suo Libro (e grazie a Dio che lo ha fatto!), allora lo shabbat è parte anche del suo umanesimo. Quale economia avremmo avuto se avessimo davvero salvato la cultura dello shabbat? E invece non siamo stati capaci di fermarci, abbiamo lavorato e consumato sempre e quindi troppo, e abbiamo perso il ritmo del tempo, della natura, della vita, ci siamo squilibrati.
Ora, improvvisamente, ci siamo dovuti fermare, e ci siamo ritrovati in un maggese del capitalismo, in un lungo sabato santo. Non lo abbiamo cercato né voluto, è arrivato e basta – come la vita, come la morte. È arrivato anche per insegnarci un nuovo senso dell’economia e del lavoro. In questa deportazione dobbiamo continuare, chi più chi meno, a lavorare; ma la sua benedizione non arriverà se ora non rallentiamo i ritmi, se ci dimentichiamo i giorni di festa e non li celebreremo più con il vestito buono (pur stando soli a casa), o se continueremo “online” lo stesso lavoro sfrenato di prima. Mi ricordava in questi giorni la mia amica Silvina, rabbina in Buenos Aires, che quando Maria, la sorella di Mosè, si ammalò di lebbra, tutto il popolo si fermò: «Maria dunque rimase isolata, fuori dell’accampamento, sette giorni; il popolo non riprese il cammino, finché Maria non fu riammessa» (Numeri 12,15).
Ci siamo ritrovati anche noi in una carestia di spazio: sarebbe stupendo se da questo spazio ristretto nascesse un nuovo tempo, se la chiusura degli spazi sacri ci aprisse una nuova sacralità del tempo! In Babilonia furono scritti alcuni dei libri più belli e profetici di tutta la Bibbia. Quel nuovo tempo nato da uno spazio limitato generò una bellezza infinita. I sapienti ebrei dicevano che la Redenzione arriverà quando l’intero mondo osserverà shabbat.
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Ci sarebbe ancora molto da cercare nelle segrete di Oikonomia. Ma, d’accordo con Marco Tarquinio, direttore e caro amico, ho pensato di terminare questa serie per iniziare da domenica prossima il commento del Libro dei Salmi. L’economia oggi si ritrae per far spazio alla Bibbia. Le preghiere che quegli antichi uomini e donne alzarono verso il cielo per continuare a sperare e vivere, potranno diventare compagne preziose in questo nostro nuovo esilio. La Bibbia è anche il dono di parole per poter ricominciare a pregare quando il dolore ci ha fatto dimenticare tutte le altre.
l.bruni@lumsa.it