Tra il Medioevo e il Rinascimento lo spirito dell’economia di mercato era diverso, a tratti molto diverso da quello del capitalismo moderno. Sta in questa differenza il senso di tornare alle domande di quella stagione dell’economia, perché il capitalismo nei secoli successivi non ha risposto diversamente alle stesse domande, ha semplicemente cambiato le domande. Quella prima etica mercantile si sviluppò dentro un mondo che mentre vedeva crescere la ricchezza dei grandi mercanti e cercava una via per tenerli dentro il recinto delle pecorelle di Cristo, vedeva anche il movimento francescano che lottava con Papi e teologi per poter ottenere il privilegio dell’altissima povertà, di poter attraversare il mondo senza diventare domini (padroni) dei beni che usavano. Tra il Libro della ragione commerciale e il Libro della ragione religiosa scorreva una tensione tragica. L’uno sfidava e limitava l’altro, e così la mercatura non diventava un idolo e la religione non si trasformava in una gabbia.
Non capiamo l’etica economica europea se non la leggiamo a partire da queste tensioni e ambivalenze, se non leggiamo la ricchezza dentro la povertà e la povertà dentro la ricchezza. Quei mercanti divennero molto ricchi, ma quella ricchezza restava una ricchezza ferita, perché, diversamente da quanto avverrà nella modernità, non era né immediato né evidente che la ricchezza fosse di per sé benedizione, mentre era immediato ed evidente che la benedizione era povertà evangelica. Ma, anche in questo caso, i paradossi e le ambivalenze si rivelarono altamente generativi.
Lo leggiamo anche nel volume "Mercanti scrittori" (a cura di Vittore Branca). Tra questi racconti spiccano "I ricordi" di Giovanni di Pagolo Morelli (Firenze, 1371-1444), dove la ragione di mercatura si integra perfettamente con la ragione di famiglia e con la ragion di stato della città di Firenze. Morelli dà anche consigli e raccomandazioni ai suoi "pupilli", figli e nipoti, che è il distillato di generazioni di saggezza mercantile: «Non fare mercantia o alcuno traffico che tu non te ne intenda: fa cosa che tu sappi fare e dall’altre ti guardi, ché saresti ingannato. Istà con altrui a’ fondaci, a’ banchi, e va di fuori, pratica i mercatanti e le mercantie; vedi con l’occhio i paesi, le terre dove hai pensiero di trafficare» ("Ricordi", III, p. 177). Il primo senso del mercante, quello davvero essenziale, è il tatto.
I suoi prodotti li deve toccare, perché i segreti decisivi della conoscenza mercantile si imparano toccando i beni che si comprano e si vendono. I panni, le pezze, le stoffe si conoscono prendendoli in mano, maneggiandoli. Il primo significato del manager rimanda alla mano, al maneggio, dove il cavallo si addomestica tramite l’uso delle mani. Un imprenditore che perde il contatto con le cose che traffica, che non esercita il tatto (con-tatto), che non le saggia sfiorandole con le dita, perde competenza e si mette nelle mani di altri, da cui finisce per dipendere interamente. In questo non vale la divisione del lavoro né la delega: l’imprenditore deve distribuire le funzioni, può e deve delegare molto, ma non il tatto dei suoi beni, questo deve tenerlo per sé. L’imprenditore italiano è cresciuto toccando i beni. Era competente delle sue cose come e di più dei suoi operai e tecnici. Era questa competenza tattile la sua prima forza. Si capisce quindi che questo "capitalismo" ha iniziato il declino quando ha messo le imprese nelle mani di manager che non toccavano più le cose che compravano e vendevano, perché esperti di strumenti, ma quasi mai di mani e di tatto dei prodotti di quella specifica impresa.
Inoltre messer Giovanni ci dice che il buon mercante deve girare il mondo, deve recarsi di persona nei mercati di molte città. Avrà bisogno di agenti e di procuratori, certo, ma non sarà un bravo mercante se non acquisterà una conoscenza diretta dei luoghi e delle persone, se non frequenterà «fondaci e banchi». Finché l’imprenditore ha la passione, l’energia, l’entusiasmo e l’eros per recarsi di persona nelle fiere, per vedere "col suo occhio" clienti, fornitori, banchieri, ha ancora il controllo della sua impresa, ne detiene le briglia, la maneggia: «Se traffichi di fuori, va in persona ispesso, almeno una volta l’anno, a vedere e a saldar ragione [i conti]. Vedi che vita tiene chi è per te di fuori, s’egli spende di soperchio, che faccia buoni crediti» (p. 178). Quando invece inizia a spendere le sue giornate solo in riunioni in ufficio e in ristoranti stellati, anche se non lo sa è già iniziata la fine, perché ha perso le mani e gli occhi dell’arte della mercatura.
C’è poi un secondo comandamento di etica mercantile: «Va sodamente nel fidarti e non t’abbottacciare [non essere credulone]: e chi più ti dimostra nelle parole essere leale e saputo, meno te ne fida; e chi ti si proffera [offre], non te ne fidare punto in niuno atto. I gran parlatori, millantatori e pieni di moine, goditeli nell’udire e dà parole per parole, ma non te ne fidare punto. D’uno che abbi mutati più traffichi e più compagni o maestri, non avere niente con esso» (p. 178). Quando un imprenditore inizia a circondarsi di "saputi", chiacchieroni, vanitosi, gran parlatori, ha già imboccato il viale del tramonto. Ma per riconoscerli occorre frequentarli fuori dai campi da golf e dagli hotel di lusso, perché è antica legge della mercatura che una persona non la conosci finché non la vedi lavorare. Grave ingenuità pensare di conoscere clienti e agenti nei congressi. È il lavoro il gran setaccio che discerne la pula delle chiacchiere dalla farina del buon mestiere.
Il terzo: «Non fare mai dimostrazione di ricchezza: tiella nascosta e dà sempre a intendere nelle parole e nei fatti che hai la metà di quello che hai. Tenendo questo istile non potrai essere di troppo ingannato» (p. 178). Qui non siamo tanto di fronte a una tecnica di evasione fiscale (forse anche, per qualcuno); c’è di più, c’è uno istile, uno stile di vita. Quei primi mercanti sapevano bene che l’invidia sociale è degenerativa per tutti. La ricchezza civile non deve produrre invidia, ma emulazione, cioè il desiderio di imitazione. Ma in un mondo a bassa mobilità sociale, come era tutto sommato quello medioevale, la ricchezza ostentata crea solo invidia e conflitto. Mostrarla oltre il limite (torna il grande tema dell’intensità lecita delle ricchezze) non giova a nessuno: «Non ti millantare di gran guadagni. Fa il contrario: se guadagni mille fiorini, dì di cinquecento; se ne traffichi mille, dì il simile, e se pur si vede dì "son d’altri". Non ti iscroprir nelle ispese. Se sei ricco di diecimila fiorini, tieni vita come su fussi di cinque» (p. 189). La sobrietà è rimasta per secoli una grande virtù dell’imprenditore e dell’industriale. I suoi figli andavano spesso a scuola insieme ai figli dei suoi operai, frequentava le stesse chiese, matrimoni, funerali. Erano "signori" ma erano anche com-pagni, almeno i loro figli erano compagni dei nostri. Quando, qualche decennio fa, la competizione si è invece spostata dalla produzione al consumo, il centro del capitalismo è passato dall’imprenditore al manager, e il capitalismo è diventato un enorme meccanismo ostentativo produttore di molta invidia sociale e frustrazione, soprattutto nei tempi di crisi.
Paolo da Castaldo (1320-1370), nel suo "Libro dei buoni costumi" istruisce poi su un quarto pilastro di quella etica degli affari: «Fa’ sempre d’avere i migliori fattori e più sufficienti. E non guardare a costo perché "pigione buona né salario di buoni fattori non furono mai cari"; i cattivi sono cari» (p. 34). Saggezza infinita, che abbiamo dimenticato in un capitalismo dove l’alto salario del manager è il primo e spesso unico indicatore della sua qualità. Paolo qui ci ricorda che il "fattore cattivo" è caro perché in genere è più interessato ai denari che alla mercatura, e che un salario troppo alto diventa un meccanismo di selezione avversa delle persone.
Il quinto: «Fa pure che nei tuoi libri sia iscritto ciò che tu ha fatto distesamente, e non perdonare alla penna e datti bene a intendere nel libro. E viverai libero, sentendoti fermo e sodo nel valsente [capitale] tuo» (p. 178-9). Lo "scriver bello" è il pregio del mercante, nelle parole del mercante e poeta Dino Compagni ("Canzone del pregio"). Non avremmo avuto l’umanesimo civile italiano ed europeo senza lo scriver bello dei mercanti, e non avremmo avuto il loro straordinario successo commerciale senza la cura e la stima per la scrittura e le lettere: «Il pupillo s’ingegni d’essere vertudioso [virtuoso], imprendere iscienzia e di grammatica e ch’egli imprenda un poco d’abaco» (p. 192). Ciò non significa dire che i mercanti fossero (o che dovrebbero essere) dei professori. Lo scriver bello dei mercanti è diverso da quello dei professori, ma è buono e necessario per il bene comune. Firenze fu capace di secoli di straordinaria economia perché i mercanti nutrivano con la loro ricchezza poeti e artisti, ma Dante e Boccaccio alimentavano i mercanti con la loro bellezza, che così entrava nei libri della ragione e nel parlar fascinoso che incantava il mondo intero: i mercanti lo incantavano con bellissime stoffe, ma anche con parole poetiche, col loro parlare e scrivere bello.
Infine: «Ora, conchiudendo, queste sopra dette cose sono utile a diventare isperto e ’ntendente il mondo, a farsi bene volere e essere onorato e riguardato» (p. 196). La benevolenza, la buona fama, l’onore e la stima, erano beni invisibili ma essenziali, più del profitto. La ricchezza ottenuta con cattiva fama non valeva nulla. Il secondo paradiso che quegli antichi mercanti cercavano era una eredità di buona fama e di onore da lasciare ai figli. Morire ricchi e disonorati era il loro vero inferno. Senza prenderne in considerazione la buona fama non capiamo neanche il fenomeno della vendita delle indulgenze. Quando prossimi alla morte quei mercanti e banchieri donavano buona parte dei loro patrimoni alla Chiesa o al Comune, non lo facevano solo per scontare anni di purgatorio, volevano anche evitare l’inferno della fama sulla terra – per loro e per la loro famiglia. Noi ai figli stiamo lasciando debito pubblico, l’eredità degli antichi mercanti era anche fama e onore.
Dietro il nostro "capitalismo" sorretto ancora dalle famiglie, disprezzato perché qualche volta diventa "familista", c’è tutta l’ambivalenza di quei primi mercanti; ma c’è anche la loro "virtude" e il loro onore. La congiunzione "e" ha avuto un ruolo decisivo nel nostro primo umanesimo economico e sociale: denaro e Dio, spirito e mercanzia, bellezza e ricchezza, lusso e povertà. Parole che si urtavano e scontravano, e lì nasceva la vita. Abbiamo ancora bisogno di una congiunzione, certamente molto diversa da quella medioevale. Ma la nostra economia diventa civile e civilizzata solo se è relazione, se unisce i diversi, se sa abitare generativamente le sue contraddizioni e le sue ambivalenze.
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(13- continua)